mercoledì 25 dicembre 2013

Racconto di Natale: lucido da scarpe


Da che io mi ricordi tutte le volte che mi lascia la ragazza io mi lucido le scarpe. No, non è un gesto ossessivo-compulsivo o scaramantico. Semplicemente guardo le mie scarpe, tutte quante, le metto in fila magari sul balcone, prendo la scatola dei lucidi, sempre la stessa da trent'anni, scelgo le spazzole per i vari colori, neutro, marrone, testa di moro, nero, e mi metto al lavoro. Non lo faccio di proposito. Sono lì che sto lucidando le scarpe una dopo l'altra e realizzo: è finita anche questa storia. Ecco perché mi è venuta voglia di lucidarmi le scarpe. Immagino sia come un tentativo di tenermi occupato iniziando un'opera di ricostruzione della mia vita, partendo dalle scarpe. Mi è successo una volta persino in America. Ero lì, sugli scalini di casa in un viale alberato nei giorni della Indian Summer, l'inizio dell'autunno, che gli alberi sono coperti di foglie rosse della bellezza di una poesia, e di fianco a me era seduto il suo bellissimo bambino di sei anni, felice di imparare da me come si lucidano le scarpe, quando ho realizzato che era finita anche quella storia. Per fortuna non mi capita molto spesso di dovermele lucidare, tutte quante. Ma sono piuttosto bravo a farlo. Forse ho imparato dalla Nonna Maria, che quando la andavo a trovare da ragazzo mi guardava le scarpe e mi diceva: dammele, che te le lucido. Alla fine ti ci potevi specchiare dentro. Oppure alla Scuola Allievi Ufficiali. Ti davano loro il materiale, la spazzola ed il lucido, e tu dovevi tenerti gli anfibi lucidati a specchio come in un film di Stanley Kubrick. Peccato che poi da ufficiale gli anfibi non me li abbiano fatti mettere neppure una volta.
Così questa mattina di Natale ero sul balcone, nella nebbia, a lucidarmi le scarpe. E ho capito.

martedì 24 dicembre 2013

Racconto di Natale: the making of Long Playing (una storia del rock)


Il mio racconto di Natale è su come ho scritto il libro «Long Playing una storia del Rock».
Bel racconto! direte voi, stai solo maldestramente cercando di farti pubblicità, tante grazie di niente, il racconto se non ti dispiace te lo leggi tu.
No, davvero, non sto facendomi pubblicità. Cioè, se andate a comprare il libro mi fate piacere, perché ho una certa lista di desideri da biffare, ma questo racconto non è marketing per il libro. Long Playing non l'ho scritto per avere un prodotto da vendere. L'ho scritto perché dovevo assolutamente raccontare questa storia. L'ho scritto perché è la mia testimonianza giurata. La musica Rock è stata decisiva nella mia vita e determinante nel plasmare la mia personalità. Mi ci sono perfino ribattezzato Blue sulla copertina di Blue Valentine di Tom Waits.
La storia della nostra musica, che poi è la storia dei nostri musicisti, dei generi, delle scene, delle vite di chi cantava, di chi c'era attorno e di chi ascoltava, l'ho sempre voluta scrivere. Solo che prima ne conoscevo solo un pezzetto, e poi un po' di più, ma mai l'ho saputa tutta come ora. Così l'ho scritta adesso, che la musica rock non interessa più a nessuno. Magari a scriverla negli anni novanta mi ci comperavo un Duetto Alfa Romeo usato...

(leggi tutto su BEAT

domenica 22 dicembre 2013

La macchina della tua vita


Immagina che trovi la macchina della tua vita. La macchina che hai sempre sognato e che ora il destino del tutto inaspettatamente ti mette in mano. Una fuoriserie senza uguali che non cambieresti con nulla al mondo. Che ci dormi la notte con le chiavi sotto il cuscino. Che stai per ore ad ammirarla in garage mentre la lucidi. Una macchina che tratti come mai nessuna prima. La macchina che ti rende felice.
Una volta ti si spegne per strada, ma la fai riparare e continui ad amarla. Un’altra volta ti lascia a piedi in autostrada, ma tu affronti tutti i disagi del caso e torni ad usarla. Devi iniziare a cambiare il tuo stile di guida, perché certe cose la mettono in crisi. Devi stare attento a non toccare certi pomelli, perché altrimenti si ferma. Devi imparare ad assecondare tutte le sue idiosincrasie.
Tutte le volte il meccanico ti garantisce che non succederà più, ma poi ti si ferma in alta montagna, poi al mare , poi in città…
Alla fine senza preavviso ti butta fuori strada. Che fai? La macchina che ami. La cambi.

venerdì 6 dicembre 2013

Blue Jasmine Woody Allen


La cose, si sa, cambiano, e da un certo punto in avanti hanno la tendenza a cambiare in peggio, se è vero che la gente passa la maggior parte del proprio tempo a rimpiangere gli happy days, quando era giovane e faceva chissà cosa. Per questo è bello attaccarsi alle abitudine rimaste. Un disco di Bob Dylan, un concerto degli Stones sono echi di un tempo che va ad esaurirsi. La stessa cosa vale per i film di Woody Allen. È da Manhattan in avanti che consumo il rito di "andare al cinema a vedere" il film nuovo di Allen.
È confortante che abbia potuto rinnovare l'abitudine anche ieri sera. Nonostante vada per gli ottanta (anni) il registra newyorchese è ancora spesso capace di sorprendermi. Se "Basta che funzioni" mi aveva irritato, "Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni" era gradevole e "Midnight In Paris" addirittura è uno dei miei preferiti. Lo scorso anno "To Rome With Love" era proprio brutto e rancoroso, come se Allen avesse voluto fare un dispetto alla città (ma cosa gli avranno fatto gli italiani?), "Blue Jasmine" mi è piaciuto. Tanto che all'uscita dal cinema, ed ancora quest'oggi, mi ritornavano alla mente i suoi personaggi, come sempre succede quando un film ha un suo peso specifico.
Come sempre la parte buona del film di Allen è il fatto che racconta storie di persone. Mentre tutto il resto del cinema di Hollywood è diventato una sottocultura tutta basato su fumetti, effetti speciali, storie di omicidi, rapine, fantascienza ed assurdità al cui confronto le soap opera sono letteratura.

Come sempre bella l'ambientazione (questa volta San Francisco) e belli i personaggi. A differenza della sua abitudine Allen non ci concede il lieto fine ed invece di chiudersi sui consueti toni lievi, buffi e speranzosi ci lascia invece con un'amarezza in bocca.
A parte la morale più elementare (i buoni vincono ed i cattivi perdono) è difficile tracciare la simbologia del nuovo film come non è evidente prevederne il finale, tanto che questa storia di ricchi infelici e poveri contenti lascia con la domanda se Allen non ci stia in realtà raccontando una vicenda che conosce. Nessun personaggio è veramente del tutto positivo o negativo ed ognuno (o quasi) ha se non le sue giustificazioni almeno le sue motivazioni. Forse gli unici due personaggi ingiustificabili sono... no, non posso svelarvelo (uno è il dentista, l'altro il diplomatico alla ricerca di una first lady da presentare in pubblico).
Allen ha dichiarato che non intende smettere di fare film fino alla fine della sua vita, e mi (e gli) auguro che sia davvero così il più a lungo possibile, visto che i risultati non gli mancano.
Ma è inevitabile pensare che ad una certa età ogni lavoro potrebbe essere l'ultimo e sarebbe allora lecito sperare in un gran finale, un'opera conclusiva che faccia da testamento spirituale, una sorta di amarcord. Anche se già sappiamo che raramente è così (penso a Lou Reed, che se ne è andato con un disco così debole come Lulu, ma in effetti sono tanti i capolavori da riascoltare che possiamo ben dichiararci comunque soddisfatti).

lunedì 15 luglio 2013

Blue Motel



Ho finito il primo libro. E adesso?
Il mio iPad è disseminato di applicazioni per la scrittura, di raccoglitori di "idee", di grafiche, di outliners. Su tutte queste app ho preso nota dei nomi dei libri che avrei scritto, sempre gli stessi, ripetutamente gli stessi titoli. I libri che avevo da scrivere, le cose che avevo da dire. Da ragazzo avrei voluto diventare uno scrittore, ma era un desiderio un po' generico. Volevo diventare uno scrittore, ma non avevo un'idea precisa di cosa avrei voluto scrivere. Per esempio, quando persi il primo amore scrissi per lei La Ballata del Ratto Baratto (ma il nome del ratto l'ho copiato).
Poi ho scritto un racconto, Pretty Flamingo, ispirato dall'intensità di una canzone che ascoltavo tutti i giorni, ma non quella dei Manfred Mann, bensì la cover di Rod Stewart. Mi piaceva così tanto da metterla su una cassetta in un lettore che si accendeva ogni mattina per darmi la sveglia. Ogni mattina mi svegliavano quei colpi di batteria che introducono Pretty Flamingo. In effetti tutte le cassette che registravo iniziavano con Pretty Flamingo, e a seguire Let's Stick Together nella versione di Bryan Ferry. Non mancava mai neppure Jersey Girl di Tom Waits (mai la versione di Springsteen, che è diluita e manca del ritmo secco del r&r), e almeno un pezzo di Le Chat Bleu dei Mink DeVille. Altri brani che negli anni furono standard nelle mie compilation sono Callin' Out To Carol di Stan Ridgway, I Wanna Be With You di Chris Rea (parlando di Chris Rea, quanto sono belle The Mention Of Your Name e Tell Me There's a Heaven?), la cover di Willy DeVille di Could You Would You dei Them, Have I Told You Lately That I Love You di Van Morrison, Bad Time dei Jayhawks, Two Hearts di Chris Isaak (a rotazione con la sua cover di Solitary Man di Neil Diamond), Only The Lonely di Roy Orbison.
In Pretty Flamingo, il racconto, non c'erano dialoghi, perché i dialoghi non li so scrivere. Lo spedii a qualche rivista glamour, me la pubblicò Subway, numero speciale estivo. Poi basta, non ne scrissi altri, racconti. Qualcuno ha detto che non hai niente da dire prima dei cinquant'anni. Adesso ho cinquant'anni ed ho in effetti un sacco di cose da dire. Ho almeno cinque libri da scrivere, già pronti con il loro titolo, e persino di più. Scrivo mentre ascolto canzoni (come in questo momento, Forever Blue di Chris Isaak), mi riempiono di emozioni come una pentola e pressione, che incanalo nelle cose che ho da dire. Da teenager pensavo di suonarle queste canzoni, prima di rendermi conto con orrore di non aver orecchio musicale, e che non sarei mai riuscito a suonare uno strumento musicale, né la Gibson Les Paul che avrei voluto, né il Fender Jazz bass che mi tenni come seconda scelta, tanto meno il sassofono. Non ho ancora del tutto rinunciato all'idea della batteria, che acquisterò quando sarò diventato ricco come scrittore famoso.
I miei scrittori preferiti erano (e ancora sono, almeno credo) gli affabulatori, Georges Simenon e Piero Chiara, e i romantici mitteleuropei, tipo Thomas Mann (La Morte a Venezia) e Arthur Schnitzler. Naturalmente leggendoli mi rendevo conto che non sarei mai stato capace di scrivere così; pensai che forse le storie degli altri avrei potuto raccontarle nei film facendo il regista, ma alla fine ero troppo borghese per osare e andò a finire che dopo la maturità mi iscrissi a Medicina. Negli anni scrissi sempre, soprattutto di musica (ma non solo), ed ebbi la fortuna di farlo al momento giusto (il 1978) sulla rivista giusta (Il Mucchio Selvaggio, il Rolling Stone italiano) ma non nel posto giusto (se già l'Italia è la periferia dell'Impero, la mia provincialissima cittadina in Val Padana è la periferia della periferia).
Fu quando mi capitò di leggere Nick Hornby che capii: questo lo so scrivere anch'io, mi dissi. Era la mia cultura, la mia generazione (stesso anno di nascita), la mia musica. Non è Alessandro Manzoni ma vende. Se l'ha fatto lui...
Allora, i titoli dei libri da scrivere, che sto scrivendo, che ho scritto, tutti assieme, in parallelo, su un'applicazione del MacBook Air che si chiama Scrivener. Perché non è che la decisione di scrivere preceda il contenuto: neanche per un attimo mi sono mai messo a pensare "cosa possa scrivere?". È il contrario: ho un sacco di cose da raccontare e devo trovare il posto giusto dove metterle, il cassetto in cui infilarle.

Per prima cosa ho scritto la storia della musica che ha segnato la mia vita ("her life was saved by rock'n'roll": Sweet Jane, Velvet Underground, Lou Reed). Il racconto della storia di quella musica. Il titolo non l'ho mai rivelato, come di tutti gli altri libri, perché pensavo che appena conosciutolo un esercito di scribacchini si sarebbe precipitato a copiarlo, a intitolare così il manoscritto nel cassetto. Lo rivelo qui per la prima volta, e se lo copiate, questo pezzo testimonia che siete degli infami. Long Playing, Side A: 1954-1976. Fossi stato inglese l'avrei intitolato The Long Play, ma in italiano LP va meglio. Esiste anche un Side B: 1977-2000, che è separato per qualche ottima ragione. Intanto perché il libro sarebbe stato troppo pesante e troppo costoso, e voi lettori non l'avreste acquistato. Invece così ne acquisterete due, un'astuzia di mio conio. Poi perché i due volumi, o meglio i due "lati", sono scritti in un timbro diverso. Il primo racconta della musica che ho scoperto a posteriori, quella che già esisteva quando ho iniziato ad acquistare dischi, i musicisti e gli album che già facevano parte della mitologia. Il secondo di quella che ho visto crescere con me, gli esordienti che scoprivo nel negozio di dischi, che si chiamassero Tom Petty, Steve Forbert, Willie Nile, Mink DeVille, Clash, Elvis Costello… Li racconto con uno stile differente, con deferenza i primi, con familiarità i secondi.

Poi c'è una raccolta di storie rock, cose vissute dal punto di vista troppo personale per far parte di una "storia" del rock. Per andare avanti ad ispirarsi a Hornby, il mio "31 canzoni". Si intitola "Perché non lo facciamo per la strada?" dal titolo del racconto conclusivo (e dalla canzone del White Album). Non è la Divina Commedia, è un raccontare leggero ma immagino significhi qualche cosa per chi ha respirato la mia stessa cultura.

Il quarto libro non racconta di musica rock, ma di motociclette.
Una filosofia pratica della motocicletta, il tentativo di svelare la filosofia che si cela dietro la passione, attraverso una raccolta di racconti di moto. Perché c'è una felicità atavica legata all'andare in moto, che suggerisce che la moto sia una creatura di Dio.

Il quinto è un annuario, o meglio, per rivelarne il titolo, un lunario, come quello che la Nonna Maria aveva appeso in cucina. Ogni capitolo è un mese, ed ogni mese è dedicato ad un tema, ad una argomento che ho da raccontare. Quel genere di cose che penso, e che talvolta racconto a qualche amico che è abbastanza sfortunato di trovarsi assieme a me alla sera quando olio un po' gli ingranaggi con un vino buono o un buon rum. Però sotto c'è anche una storia, che trapela mese per mese e si realizza al compiersi dell'anno. Sì, è una cosa un po' autobiografica. Tipo Blue Motel. Ma non si intitola Blue Motel, perché quello è il titolo del romanzo, non ancora scritto, che arriverà per ultimo, dopo che l'esperienza degli altri cinque lavori mi avrà affinato un po' il mestiere. Racconta di un bravissimo ragazzo, nato alla fine degli anni cinquanta e cresciuto in questo Paese con l'idea di andarsene, senza mai avere alla fine il coraggio di farlo. L'autobiografia di una persona non illustre. Ogni riferimento a persone o cose reali è puramente casuale.

Ho finito il primo libro. E adesso?

sabato 8 giugno 2013

il mattino ha l'oro in bocca



Scrivo. Mi spingo ad affermare di essere in dirittura finale, se non fosse che è un rettilineo molto molto lungo, ed anche un po' in salita... un falso-piano insomma. 

Scrivevo di musica alla fine degli anni '70 ed all'inizio degli '80, soprattutto su Il Mucchio Selvaggio di Max Stéfani, allora la più autorevole rivista italiana di musica rock. Ho scritto nei '90 per Feedback, un'ottima rivista con Marco Denti e Mauro Zambellini che non ricorda nessuno perché è vissuta "solo un giorno, come le rose". Sono stato uno dei primi autori ad approfittare del web, dal 1986 con un sito dal nome di Texas Tears on line, fino all'attuale BEAT blog, che mi ha dato soddisfazioni come seguito di lettori, ma che "professionalmente" non porta nessun guadagno in tasca - e come è noto non si vive di sole soddisfazioni. Un'appendice a BEAT è infine arrivata su FaceBook, che ha rimpiazzato il vecchio sistema dei commenti del blog. 

Da un anno a questa parte mi è piaciuto tornare anche ai "vecchi" media, vale a dire alla carta stampata, grazie anche alla collaborazione con Eleonora Bagarotti. Per ora si tratta della parte musicale della rivista SUONO, storica testata di hi-fi da molti decenni (ci avevo già collaborato quando la rubrica musicale si chiamava Music Box). A Giugno si aprirà poi una nuova avventura, sotto forma di una rivista in parte su carta ed in parte elettronica, che rappresenta una bella scommessa di questi tempi in cui leggere non pare essere più una necessità. 

Ma la mia personale priorità è diventata quella dei libri. Probabilmente per il desiderio nato con gli anni di lasciare una testimonianza un po' più solida, perché se "verba volant, scripta manent" un po' volatili sono anche le parole che pubblichiamo sui giornali... who wants yesterday papers, cantavano gli Stones, nobody in the world... 

Di questi libri sono vicino al traguardo del primo, che è di gran lunga il più corposo. Il titolo non lo posso ancora rivelare, ma si tratta alla fin fine di una storia del rock, o meglio della mia testimonianza alla storia della musica e della cultura della mia generazione. Niente di palloso né di enciclopedico: mi è piaciuto dare un taglio un po' cinematografico a questa storia, o  a queste storie. Di romanzarlo un po' il rock, insomma. Certo c'è un sacco da raccontare perché di musica ne è stata suonata dal 1954 al 2013. 
La prima stesura è finita, sono al secondo passaggio, quello che tappa i buchi che avevo lasciato (una groviera), e seguirà la correzione definitiva. 
A lavoro terminato l'idea è infine di non cercarmi un editore ma di autopubblicarmi (al plurale, perché è parte dell'impresa anche Eleonora Bagarotti, che ha già stampato in modo tradizionale ben otto libri di musica rock). Un'idea un po' scomoda quella della pubblicazione autarchica(o indie), ma di questi tempi percorribile. Certo, consegnare il manoscritto finito all'editore è più comodo e segna il momento conclusivo di un lavoro, gratificato persino da un modesto anticipo, mentre autoprodursi è solo l'inizio di un secondo lavoro con tante incognite, ma mantenere il controllo totale sul proprio libro mi sembra un vantaggio per cui valga la pena di sforzarsi. 
Abbiano poi trovato un nome così bello alle edizioni (che saranno sia in e-book che su carta, magari non distribuite in tutte le librerie ma solo in alcune selezionate) che varrebbe la pena di provarci solo per quello. 

Il libro sulla "storia del rock" è solo il primo di quattro progetti in cantiere, tutti in fase avanzata di preparazione, come pure in dirittura finale è il romanzo di Eleonora (di cui non vedo l'ora di poter svelare l'intrigante titolo) che ha in fila altre due cose: un libro sul rock femminile (inteso come artiste ma anche come donne che hanno gravitato attorno ai musicisti)e la riedizione, riscritta e ampliata, del suo Diario di una Groupie. 
I miei libri successivi saranno: una raccolta più lieve di storie sul rock, spesso più dalla parte dell'ascoltatore che da quella del musicista. L'idea mi è venuta leggendo Alta Fedeltà di Nick Hornby, mentre stavo riflettendo sulla misera audience dei libri rock e sulle deboli prospettive di vendita. Alta Fedeltà è stato un best-seller, sia pure più all'estero che in Italia, per cui: "se lo ha fatto lui, perché non posso io?". Se non crediamo noi nei nostri mezzi, chi lo farà? Io sono il mio fan #1 ;-)

Seguirà una storia motociclistica (la mia altra passione), che odora di asfalto, di sterrato, di benzina ma anche di filosofia... 
Da ultimo uno zoom all'indietro su tutto: Blue Motel, parole di una generazione di ex-giovani, non solo musica, non solo moto, ma anche tutto il resto, compresi, perché no, politica, amore, sesso... 

Spero di essere in grado di rispettare i miei buoni propositi già dalla fine dell'estate, ma ora mi scuserete perché devo riprendere a scrivere. Non è facile quando non ci si può permettere di farne il proprio lavoro, ma la scrittura deve necessariamente prendere ogni ritaglio, strappando tempo al riposo, passeggiate, giri in moto e ronfate al sole sulla sdraio: 

"il mattino ha l'oro in bocca 
 il mattino ha l'oro in bocca
 il mattino ha l'oro in bocca
 il mattino ha l'oro in bocca
 il mattino ha l'oro in bocca
 il mattino ha l'oro in bocca
 il mattino ha l'oro in bocca
 il mattino ha l'oro in bocca
 il mattino ha l'oro in bocca
 il mattino ha l'oro in bocca
 il mattino ha l'oro in bocca
 il mattino ha l'oro in bocca
 il mattino ha l'oro in bocca
 il mattino ha l'oro in bocca
 il mattino ha l'oro in bocca
 il mattino ha l'oro in bocca
 il mattino ha l'oro in bocca
 il mattino ha l'oro in bocca
 il mattino ha l'oro in bocca..." 

sabato 1 giugno 2013

Peter Pan



La luce era spenta e Wendy, seduta vicino al caminetto, stava rammentando vicino alla luce del fuoco. Mentre rammendava, sentì il canto del gallo. Poi la finestra si spalancò di colpo e, come tanti anni prima, Peter si posò sul pavimento. 
Non era cambiato affatto, e Wendy si accorse subito che aveva ancora tutti i denti da latte. Lui era ancora un bambino e lei era ormai una donna. Wendy si rannicchiò tutta vicino al fuoco, senza avere il coraggio di muoversi, sentendosi smarrita e colpevole.
"Ciao Wendy" disse Peter, senza accorgersi di nulla, un po' perché pensava quasi sempre a se stesso, e un po' perché nella penombra l'abito bianco di Wendy poteva sembrare la camicia da notte in cui l'aveva vista la prima volta.
"Ciao Peter" rispose Wendy a voce bassa, facendosi più piccola possibile.
"E Gianni dov'è?" domandò Peter, accorgendosi all'improvviso che mancava il terzo letto.
"In questo momento Gianni non c'è" rispose lei trattenendo il respiro.
"Michele dorme?" chiese Peter con un'occhiata distratta al letto di Jane.
"Sì" rispose Wendy, e così dicendo sentì di essere sleale con Jane e con Peter.
"Quello non è Michele" rispose in fretta per tranquillizzare la propria coscienza.
Peter guardò. "Toh, è uno nuovo?"
"Sì"
"Bambino o bambina?"
"Bambina".

Era chiaro, no? Ma Peter non aveva ancora capito.

"Peter" disse Wendy "ti aspetti forse che voli via con te?"
"Certo, sono venuto per questo". E aggiunse severamente: "Hai dimenticato che è il momento delle pulizie di primavera?"
Wendy sapeva che era inutile ricordargli che aveva lasciato passare molte e molte primavere.
"Non posso venire" disse, in tono di scusa. "Non so più volare".
"T'insegnerò di nuovo".
"Oh, Peter, non sprecare per me la polvere delle fate". Si alzò, ed ecco che finalmente Peter provò un senso di paura.
"Che ti è successo?" gridò indietreggiando.
"Accenderò la luce" disse Wendy, "e vedrai".
Forse per la prima volta in vita sia Peter ebbe paura. "No, non accendere la luce!" gridò.

Le mani di Wendy indugiarono fra i capelli del ragazzo. Non era più una bambina che si disperava per lui, era una donna che gli sorrideva, ma con un sorriso bagnato di lacrime.
Poi Wendy accese la luce, e Peter la vide. Gettò un grido di dolore, e quando la bella creatura si chinò per prenderlo tra le braccia, si tirò indietro bruscamente.

"Che ti è successo?" ripeté.
Bisognava dirglielo.
"Sono grande, Peter. Ho molto più di vent'anni. E' tanto tempo che sono cresciuta".
"Mi avevi promesso di non crescere!"
"Non ho potuto farne a meno. E mi sono sposata, Peter".
"Non è vero".
"Sì, è vero. E la bambina che dorme nel letto è mia figlia".
"Non è vero".
Ma poi si convinse, e fece un passo verso la bambina col pugnale alzato. Naturalmente non la colpì. Invece si lasciò cadere sul pavimento e pianse; e Wendy non sapeva come consolarlo, mentre una volta le sarebbe stato così facile. Ma ormai era solo una donna, e corse fuori dalla camera come in cerca di un'ispirazione. 

Peter continuava a piangere, e i suoi singhiozzi svegliarono Jane. La bimba si alzò a sedere sul letto, subito interessata.
"Bambino" disse, "perché piangi?"
Peter si alzò e le fece un inchino, e Jane gli rispose dal letto con un altro inchino.
"Ciao" disse Peter.
"Ciao" disse Jane.
"Mi chiamo Peter Pan".
"Sì, lo so" disse Jane.
"Ero tornato a prendere la mamma" spiegò Peter, "per portarla al Paese-che-non-c'è".
"Sì, lo so" disse Jane. "Ti aspettavo".

Quando Wendy tornò sfiduciata in camera, trovò Peter seduto ai piedi del letto che faceva fieramente chicchirichì, mentre Jane, in camicia da notte, volava per la stanza con aria estatica e solenne.
"È mia madre" spiegò Peter, e Jane calò giù e si mise vicino a lui; la bimba aveva sul viso quell'espressione che piaceva tanto a Peter quando le donne lo guardavano.
"Ha tanto bisogno di una mamma" disse Jane.
"Sì, lo so" ammise Wendy, sconsolata. "Nessuno lo sa meglio di me".
"Addio" disse Peter a Wendy, e si librò in aria, seguito da quella sfrontata di Jane che volava già con straordinaria naturalezza. Wendy si precipitò verso la finestra.
"No, no!" gridò.
"Solo per le pulizie di primavera" disse Jane, "lui vuole che faccia le pulizie tutti gli anni".
"Se almeno potessi venire con voi" sospirò Wendy.
"Ma tu non puoi volare" disse Jane.

(da Peter Pan e Wendy, di James Matthew Barry)

sabato 25 maggio 2013

Capitan Uncino



La sindrome di Peter Pan è l'incapacità di crescere, di lasciarsi alle spalle la fanciullezza e crescere, accettando la responsabilità dell'età adulta, con i suoi onori ed oneri.
Definita in termini positivi, la sindrome di Peter Pan è la voglia di non crescere.

“Quale malvagia svolta nel processo evolutivo ha dato all'uomo l'aspirazione di diventare adulto?”

Epidemia dei giorni nostri, non solo fra i maschietti, di una società edonista e mammista (con i suoi tempi innaturalmente lunghi degli studi e la difficoltà di ingresso al mondo del lavoro) che ha creato in più di una generazione l'illusione di poter evitare di crescere, di realizzarsi e forse persino di morire.
C’è un aspetto della sindrome di Peter Pan, una “fase più avanzata” della malattia, comunemente non menzionata perché meno romantica.
Peter Pan è un eterno giovane. Bello, gioioso, ammirato dai suoi "ragazzi perduti" e amato dalle bambine. Egoista, anche, egocentrico e narcisista.
Ma che succede quando il bellissimo Pater Pan alla fine non è più giovane? Che si trasforma nel suo alter ego: Capitan Uncino. Il capo dei pirati, il suo nemico mortale e più odiato, perché altro non è che la sua immagine nello specchio, il suo destino e la sua nemesi. Capitan Uncino è il doppio di Peter Pan.
Cosa al mondo più teme Capitan Uncino? Il gigantesco coccodrillo, che un giorno gli assaggiò la mano e che lo insegue in ogni luogo per gustare il resto del suo corpo. Come si annuncia l'arrivo del coccodrillo? Con il ticchettio dell'orologio (che il coccodrillo ha ingoiato). Un ticchettio che avanza inesorabile a scandire il numero dei secondi che mancano alla fine della vita di Capitan Uncino. Quando l'orologio si scaricherà, Capitan Uncino non avrà più modo di sentir arrivare il coccodrillo, che alla fine lo prenderà di sorpresa.
Cosa al mondo più teme Capitan Uncino? Il ticchettio degli orologi.
Cosa al mondo più teme Capitan Uncino? Il tempo che passa.
Capitan Uncino non è bello, non è gaio, non è ammirato, non è amato. Piuttosto è temuto e per quanto possibile evitato.
Capitan Uncino è un vecchio Peter Pan divenuto patetico, perché continua a vivere prigioniero di un mondo di fantasia, condannato a ripetersi giorno dopo giorno senza crescere.

“I ragazzi perduti erano in giro a cercare Peter, i pirati erano in giro a cercare i ragazzi perduti, i pellirosse erano in giro a cercare i pirati e gli animali selvaggi erano in giro a cercare i pellirosse. Camminavano in tondo sull'isola, ma non si incontravano perché tutti andavano alla stessa velocità”

Capitan Uncino è la fase terminale della sindrome di Peter Pan.
Ma forse è anche il Peter Pan che si è lasciato crescere e che vuole tornare indietro. Peter Pan ha messo su famiglia e si è lasciato incastrare dall'impacabile meccanismo dell'orologio, del tempo che passa, il figlio che cresce, il lavoro frustrante, la moglie noiosa e forse infedele, le bollette, le tasse, l'arteriosclerosi, la pensione, la vecchiaia. Peter Pan compra una tanica di benzina, da fuoco alla casa, sale in auto e torna a cercare l'Isola che non c'è con il vestito di Capitan Uncino. Perché Capitan Uncino non è un adulto: non ha moglie e cazzeggia tutto il giorno su una nave pirata ancorata al porto di un'isola che non esiste, e ci si diverte pure un sacco. Capitan Uncino è la versione rock di Peter Pan.

domenica 28 aprile 2013

il muro della vergogna



"Ha distrutto l'Italia, mai al governo con Berlusconi" (Enrico Letta)

"La prospettiva di un Berlusconi è una idea repellente rispetto alla buona politica. Alle bugie di Berlusconi risponderemo colpo su colpo. Bisognerebbe aprire una commissione parlamentare d’inchiesta su di lui" (Enrico Letta)

Contro ordine compagni! Berlusconi non è il male! È stato la vittima di una campagna diffamatoria orchestrata dalla reazione e dagli ignoranti grillini. Il bene della Patria, come ci ha ricordato il Grande Presidente Napolitano, impone che si lavori insieme serenamente, liberandolo dagli affanni degli attacchi della magistratura (grillina).
Chi nel PD non voterà la fiducia al Governo con Alfano vicepremier e ministro degli interni sarà espulso!

Berlusconi non ce l'avrebbe mai fatta a vincere di nuovo senza i suoi amici del PD.

Gli italiani che hanno votato PdL hanno votato per Berlusconi.
Anche gli italiani che hanno votato PD hanno votato, senza saperlo, Berlusconi.
Per cui Berlusconi, dato per morto, ha avuto più del 50% dei consensi.
Ora chi è compromesso con il PD mi dice che Berlusconi è un falso problema. Sono gli stessi che in campagna elettorale hanno chiesto i voti contro di lui.

Usciamo dalla campagna elettorale e mettiamoci a governare consapevolmente: si parte dalla legge sul conflitto d'interesse? C'è la darà il governo Letta?

Il PD è alleato di Gasparri, di Alemanno, della Polverini. Di Brunetta, Santanché, Minetti, Alfano e Berlusconi. D’altra parte loro sono alleati di Rosy Bindi e D’Alema.

Che poi, chi dice che Ruby non fosse davvero la nipote di Mubarak? Beppe Grillo?

Il PD è all'ultimo giro di valzer. Chi lo voterà mai più? Che bisogno c’è di dare il voto ad un intermediario se puoi votare direttamente Berlusconi?

Davvero non riesco a credere che il PD abbia raccolto i voti degli elettori CONTRO Berlusconi e li abbia usati PER allearsi a Berlusconi... perché non nominarlo anche segretario del partito adesso? Davvero, non riesco a crederci...

Per me Berlusconi oggi è ancora la rovina del Paese, come lo era ieri. Come lo sono i suoi complici del PD.
PD e PDL sono la stessa cosa, hanno i medesimi obiettivi e gli stessi metodi. L’interesse personale e la lottizzazione del Paese.

Sono passato di fronte all'edificio dove avevo votato per le primarie. Sembra passato un secolo: Berlusconi si era ritirato e tutta la casta si era nascosta, convinta che gli italiani li avessero cacciati.
Il voto per il restauro li sorprese e li riportò fuori dalle tane.
Così oggi di nuovo abbiamo il PdL al governo e Berlusconi ancora una volta conduce le danze. Ed il PD che non solo non se ne vergogna, ma anzi ne è orgoglioso. Perché si sono accorti che gli italiani non sono nessuno.

“Egli aveva solo una critica, disse, da fare all'eccellente e amichevole discorso del signor Pilkington. In esso il signor Pilkington si era sempre riferito alla "Fattoria degli Animali". Non poteva sapere, naturalmente - e lui, Napoleon, lo annunciava ora per la prima volta - che il nome "Fattoria degli Animali" era stato abolito. Da quel momento la fattoria sarebbe ritornata "Fattoria Padronale", quello cioè che, egli credeva, era il suo vero nome d'origine.
«Signori» concluse Napoleon «ripeterò il brindisi di prima, ma in forma diversa. Riempite fino all'orlo i vostri bicchieri. Signori, ecco il mio brindisi: alla prosperità della Fattoria Padronale!»
Come prima, vi furono calorosi applausi e i bicchieri vennero vuotati fino al fondo. Ma mentre gli animali di fuori fissavano la scena, sembrò loro che qualcosa di strano stesse accadendo. Che cosa c'era di mutato nei visi dei porci? Gli occhi stanchi di Berta andavano dall'uno all'altro grugno. Alcuni avevano cinque menti, altri quattro, altri tre. Ma che cos'era che sembrava dissolversi e trasformarsi? Poi, finiti gli applausi, la compagnia riprese le carte e continuò la partita interrotta, e gli animali silenziosamente si ritirarono.
Ma non avevano percorso venti metri che si fermarono di botto. Un clamore di voci veniva dalla casa colonica. Si precipitarono indietro e di nuovo spiarono dalla finestra. Sì, era scoppiato un violento litigio. Vi erano grida, colpi vibrati sulla tavola, acuti sguardi di sospetto, proteste furiose. Lo scompiglio pareva esser stato provocato dal fatto che Napoleon e il signor Pilkington avevano ciascuno e simultaneamente giocato un asso di spade.
Dodici voci si alzarono furiose, e tutte erano simili. Non c'era da chiedersi ora che cosa fosse successo al viso dei maiali. Le creature di fuori guardavano dal maiale all'uomo, dall'uomo al maiale e ancora dal maiale all'uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due”.



venerdì 5 aprile 2013

Patria e Bandiera


“arrivasti a varcar la frontiera in un bel giorno di primavera e mentre marciavi con l'anima in spalle vedesti un uomo in fondo alla valle che aveva il tuo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore… se gli sparo in fronte o nel cuore soltanto il tempo avrà per morire ma il tempo a me resterà per vedere vedere gli occhi di un uomo che muore… Ninetta mia crepare di maggio ci vuole tanto troppo coraggio, Ninetta bella dritto all'inferno avrei preferito andarci in inverno…” 

Il problema con la Patria e la Bandiera è che ognuno ha la sua. Per esempio ci sono buonissime persone in Austria per cui la Patria sacra e inviolabile si trova a nord delle Alpi ed il tricolore è rosso bianco e rosso. Per un francese la bandiera è rossa bianca e blu, per uno spagnolo rossa gialla e rossa. Siamo tutti esseri umani e siamo tutti brave persone, ma ci schieriamo sotto diverse bandiere. Pisa contro Firenze. Pavia contro Milano.
Ora, fino a che sotto i colori della bandiera andiamo a giocare alle Olimpiadi, è un gioco. Ma quando con le bandiere cominciamo a farci le parate militari, la cosa si fa più torbida.
Prendi la Costituzione: “l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Poi prendi la celebrazione della Vittoria, e la celebrazione ai Caduti. Quella ai caduti mi pare l’inganno più vile: “tantissimi veri italiani hanno sacrificato la loro vita e tanti giovani, puri di cuore e di intelletto, hanno immolato la loro esistenza senza chiedere nulla. La bandiera quindi esige il massimo rispetto da parte di tutti”.
Sono d’accordo che non dovremmo mai dimenticare dei morti in battaglia: “…chi diede la vita ebbe in cambio una croce”, ma dovremmo farlo nel significato corretto di quella memoria. Nel momento in cui si cerca di far diventare i Caduti testimonial di chi li ha mandati a morire, li si uccide un’altra volta.
Fra il 1915 ed il 1918 tutta una generazione fu derubata della vita durante la Grande Guerra, una generazione che non chiese di andare ad uccidere altre persone in Austria per il Re e la Patria e la Bandiera. Ci furono mandati, gli si sparava addosso dalla nostra parte per farli uscire dalle trincee ed andare al macello, e loro sparavano nella schiena dei nostri ufficiali per potersi fermare e tornare indietro. Questi veri italiani non hanno difeso la Patria, ma nel suo nome sono stati mandati alla morte. Lo stesso vale per i loro figli mandati qualche anno più tardi a piedi nelle steppe russe con le insegne fasciste a far guerra ad un’altro popolo ed un’altra Patria ed un’altra Bandiera. Anche loro non l'avevano chiesto, ce li ha mandati Benito Mussolini sempre nel nome della Bandiera.
Se non impariamo e se non ricordiamo correttamente, qualcun altro prima o poi sarà mandato a uccidere e morire dalla demagogia della Patria e della sua Bandiera.

Anni fa ero in vacanza in Austria, lungo il Danubio, in un paese che sembrava uscire da un libro di favole. Gente gentile, case, cielo, campi, fiume. Una piazzetta ed un piccolo monumento, ai caduti. Una statua rappresentava un soldato nell’atto di perdere la vita, una statua vista tanto spesso nelle nostre piazze. Ma il suo elmetto non era quello che siamo abituati, era quello dei cattivi. Ucciso da uno dei buoni, cioè i nostri. Due brave persone, l’uno e l’altro, probabilmente nessuno dei due tornato a casa, mandati ad uccidersi dalla demagogia della Patria, della Bandiera e del Re…