lunedì 28 dicembre 2015

Guerre Stellari


Da ragazzino mi poteva capitare di prendere in mano un albo di Superman (che all'inizio si chiamava Nembo Kid) o di Batman, per esempio su una spiaggia estiva oppure seduto sulla poltrona del barbiere (anche se lì, a dire il vero, erano altri i fumetti che con finta indifferenza si cercava di lumare). Ma nonostante il fascino di storie infarcite di kriptonite verde o multicolore, non veniva in mente a nessuno di paragonare i fumetti dei supereroi alla letteratura, o anche solo a quelli degli albi di Linus. Per questo mi infastidisce un po’ tutto il can can sollevato dalla proiezione del sequel di un film hollywoodiano di fantascienza, quasi fosse l’evento cinematografico dell’anno - e probabilmente lo è, in una società che culturalmente gravita attorno ai serial televisivi.
Con la fantascienza ho sempre avuto un rapporto ambivalente. Mentre da una parte ne sono incuriosito, dall’altra non è mai successo che un romanzo di fantascienza mi abbia soddisfatto. A parte che la letteratura di genere è una letteratura “minore” per definizione, ogni volta che mi imbarco nella sua lettura trovo che gli scritti siano sciatti e scontati e soprattutto mancanti di un senso. Per tralasciare la fantascienza cyberpunk, i cui temi disturbanti mi sembrano solleticare più che altro le pulsioni sessuali masochistiche del lettore.
What’s so wrong in peace, love and understanding?

A tredici anni mi piacevano i Robot di Asimov, e la trilogia della fondazione, ma a quell’età si è tutti un po’ nerd. Riletto, Asimov mi è sembrato più vicino alla Settimana Enigmistica che alla letteratura.
Più dei libri ho apprezzato il cinema di fantascienza, almeno quello degli anni settanta ed ottanta. Da bambino ero ipnotizzato dalla serie “Ai confini della realtà”, anche se veniva di regola trasmessa ad orari in cui mi trovavo a letto. Ed i telefilm di “Ufo Base Luna”, così cool e mod. Il cinema riesce a realizzare in modo meno banale le visioni fantascientifiche: 2001 Odissea nello spazio, Alien, Blade Runner, Guerre Stellari (l’originale con il titolo in italiano), Total Recall, ed anche minori di fascino come Predator, Stargate o Il Quinto Elemento. Persino il primo film di Star Trek, quello del 1979. Sto includendo solo i film strettamente di fantascienza, quelli con gli alieni, lasciando fuori cose come Minority Report, per esempio.
Erano splendidi i film SF classici in bianco e nero degli anni cinquanta, per la loro essenzialità ed asciuttezza, lontano dai cliché televisivi e dagli schemi prefabbricati dei film hollywoodiani contemporanei (tipo Independence Day, appesantito dal cerone degli extra di storie d’amore). Mi viene da pensare a cose come Ultimatum alla terra, oppure La cosa dall’altro mondo (ripresa benissimo anni dopo da John Carpenter). Film con un ritmo.
Il fascino di Guerre Stellari, l’originale, non stava certo nella trama (buoni contro cattivi, non ci serviva altro), ma nel quadro polveroso e usato di una fantascienza finalmente non patinata, ma popolata di cowboy malconci come Ian Solo (il vero protagonista, star in quegli anni anche di Blade Runner e Indiana Jones), Chewbecca, C1-P8 e D-3BO. Fra l’altro già visti, una decina di anni prima, in un fumetto di Bonvi e Guccini intitolato Storie dallo Spazio Profondo, in cui non mancava né l’astronave scassata, né la coppia del comandante sbruffone e del suo socio antropomorfo, e nemmeno il bar in cui sarebbero entrati, una decina di anni dopo, Luke Skywalker e Obi-One Kenobi.


martedì 15 dicembre 2015

La storia di Natale del 2015


Il mio racconto di Natale di quest’anno.

Bruno e Barbara vivono una storia d’amore. Sono felici, di quella felicità che si realizza solo nello stato di grazia della luna di miele. Una felicità fragile, che non si può comprare, che va riconosciuta e protetta con cura.
Ma Barbara è insicura, ed in cuor suo ha paura che la felicità possa non durare. Che un accidente possa intervenire a distruggere la loro storia d’amore. Barbara ha paura di perdere Bruno, perciò è gelosa, e segretamente lo controlla. Per esempio, legge di nascosto i suoi messaggi sul telefono, perché irrazionalmente non può fare a meno di temere che, anche se lui è dolce, innamorato, attento e presente, possa vedersi con qualche altra ragazza, lesta a portarglielo via.
Bruno ama Barbara ed è felice, però ha amici ed amiche. Per esempio è rimasto in rapporti di amicizia con una sua ex; quando si sentono, fa loro piacere raccontarsi l’un l’altro della propria vita.
Quando Barbara scopre un messaggio di Bruno alla ex, precipita nella gelosia. Non capisce e non tollera questa amicizia, e stressa il rapporto fino a che lei e Bruno, esausti, si separano. Barbara ha il cuore spezzato, perché il suo peggior timore si è materializzato: un incidente è giunto inatteso dallo spazio esterno (così pensa) a rubarle il suo amore.
Se Barbara avesse avuto fiducia nell’amore di Bruno, non lo avrebbe controllato, non lo avrebbe incatenato, ed oggi Barbara e Bruno sarebbero una famiglia felice. Invece oggi Barbara pubblica messaggi amari su FaceBook in cui si dimostra sempre più insicura di sé e dell’esistenza dell’amore vero.
Non riesce a realizzare che la persona che le ha portato via la felicità è lei stessa.

In un diverso scenario, Barbara non è gelosa. Non controlla Bruno, non lo soffoca, ma rispetta e accetta i suoi spazi privati, perché sa che, non condividendo due persone lo stesso vissuto e non potendo entrare l’uno nella testa dell’altro, la buona regola che due amanti devono esercitare è il rispetto e la fiducia reciproca.
Barbara e Bruno sono sposati, hanno una famiglia, di cui ora fanno parte anche due bambini: uno frequenta l’asilo, l’altra già la scuola elementare.
Un giorno a Barbara succede di prendere una cotta per un altro uomo, il padre di un compagno di asilo del figlio. Dopo anni di convivenza serena e felice con Bruno, un altro uomo che la corteggia la fa sentire di nuovo giovane e desiderabile, e risveglia in lei appetiti erotici assopiti. Quando Bruno la scopre (perché gli amanti vengono sempre scoperti), Barbara si rende conto della fatuità del proprio comportamento, e di quanto profondo sia invece il suo amore per Bruno e la propria famiglia. Ma Bruno, nonostante qualche tentativo, non riesce a dimenticare; l’orgoglio ferito lo rende geloso, e dopo qualche mese d’inferno e molte scenate lascia la famiglia.
Bruno e Barbara affrontano anni duri, di ristrettezze economiche, di rancori reciproci, mentre i figli perdono l’occasione (unica) che avevano di crescere in una famiglia unita. Alla fine Bruno e Barbara si ritrovano invecchiati e delusi da una vita che non li ha ripagati delle proprie speranze.

Nella dimensione parallela, Bruno è invece riuscito a dare fiducia a Barbara, ed a perdonarla, riscoprendo il loro amore. Vent’anni di vita assieme più tardi, quando i figli lasciano la famiglia per vivere la propria vita, sono ancora assieme, per vivere una terza età serena e complice.

La lotta, spesso coronata dalla sconfitta, fra l’intelligenza e la bestia. Che a voler ferire, si fa del male da sé. Perché dovete essere gelosi come babbuini, o imbecilli?


domenica 29 novembre 2015

il film americano del batterista


Dunque, ieri sera (era sabato sera e siccome siamo in novembre, quasi dicembre, era già buio come se fosse notte, anche se i negozi sono ancora aperti), vedo la vetrina illuminata del negozio di dischi e penso che sia piacevole entrare per un saluto agli amici. Non era il sabato sera sfigato di un sabato sfigato: ho avuto i miei momenti sfigati, ma per fortuna invecchio bene come un vino toscano, e i miei sabati stanno andando a gonfie vele. Me ne tornavo da una splendida giornata in giro per una Modena prenatalizia (ed il centro di Modena prima di Natale è una meraviglia), mi ero fatto un bel po’ di autostrada con un’auto che gira rotonda che è un piacere, ed ero solo stanco e desideroso di godermi una serata di riposo sotto il piumone. Ma non sarebbe stato piacevole addormentarmi guardando un bel film, di quelli che ti riscaldano il cuore? Anche se purtroppo film buoni non ne girano più da un pezzo. Non sono mai stato uno da “andiamo al cinema a passare una serata in compagnia” ma uno da “andiamo a vedere un film”. C’è differenza: è come “facciamo una tavolata per stare assieme”, oppure “andiamo al ristorante a mangiare bene”. Si va al cinema per passare il tempo, e giusto per caso sullo schermo proiettano qualcosa; invece si va a vedere un film per vedere il film. Da giovane volevo fare il regista. Ho  passato almeno dieci anni della mia infanzia a vedermi puntualmente un film al cinema ogni domenica; a sei anni con il nonno, a 13 con gli amici. Poi il lunedì, a scuola, durante l’ora di religione, raccontavo il film ai compagni. Lo raccontavo veramente, con gli alunni seduti a semicerchio attorno a me a bocca aperta in fondo all’aula. C’era chi sosteneva che fosse meglio ascoltare il film che vederlo al cinema. Poi il regista non l’ho fatto, ed il mondo ha di certo perso qualche cosa, ma insomma.
Questo per dire che il cinema per me è una specie di fatto religioso. Non riesco a vedere un film che non è bello, o meglio, non riesco a vedere un film che non mi piace. Esco a metà. Sai quanti amici si sono incazzati, quando fra il primo ed il secondo tempo annunciavo che sarei uscito dalla sala? Ma per me era importante, era come informare il regista che il suo film era una cagata. Se un film non mi piace, non c’è verso che io ne guardi il finale; sarebbe un’atto di viltà, sarebbe una resa della mia integrità nei confronti di questo entertainment di stampo televisivo.
Così il sabato sera entro nel negozio di dischi dei miei amici, con la vetrina illuminata che nella serata buia e gelida promette se non un nirvana almeno una dose di calore umano. Parlo di un negozio che esiste dai tempi buoni, dai giorni di gloria dei dischi e della musica rock. Dai giorni in cui le copertine avevano un profumo, e da prima che i film si potessero acquistare. Di questi tempi che i negozi di dischi non esistono più neanche a Londra e NYC, ogni volta che ne varco la soglia mi prende il sospetto che in realtà il negozio sia la copertura di qualche cosa di più remunerativo; non voglio insinuare il meretricio o lo spaccio di stupefacenti e neanche il gioco d’azzardo; penso a qualche cosa come la sede di una cellula del KGB. Tutte le volte mi stupisco invece di trovarlo ben pieno di cienti, con le persone in coda alla cassa con un CD in mano, a dispetto dell’esistenza di Spotify, o con un DVD, a dispetto di Sky. Un’umanità variegata, di cui i miei amici per assicurarsi la fama invece di vendere dischi dovrebbero scrivere la cronaca. Dunque entro, in attesa dell’arrivo di un appuntamento, con la vaga speranza di trovarmi per le mani un film che mi sorprenda, ma con la certezza che non succederà. Tutti i film che mi piacciono li hanno girati negli anni settanta, quando le telecamere era fisse e le sceneggiature erano la parte più importante. Quando le macchine americane nei film erano americane e non asiatiche. Gli ultimi film buoni che sono stati girati si intitolano Pulp Fiction (quando ancora io passeggiavo abbracciato con il primo amore), Eyes Wide Shut (quando ancora non mi ero mai sposato), e Tenebaum (e li in effetti era già il nuovo millenio). The Royal Tenebaum, un capolavoro, l’unico film di Wes Anderson che vale la pena di vedere e rivedere, perché gli altri sono solo dei tentativo zuccherosi di rifarlo, e perché dovresti guardare una copia mal riuscita se hai in mano l’originale?
Così butto l’occhio alle solite copertine, e mi fermo a leggere il retro dei soliti DVD, quelli di Woody Allen, di Almodovar o chessò io, domandandomi per esempio se valesse la pena di guardare Magic In The Moonlight. Anche se ultimamente sono diventato un cattivo cliente, i miei amici del negozio di dischi sono davvero gentili, e ce n’è sempre qualcuno che spreca il suo tempo con un consiglio. Veramente il socio mio coetaneo ci ha rinunciato, credo perché si sia offeso che gli abbia stroncato alcuni dei suoi film francesi preferiti. Da quando lo conosco va tutti gli anni a Cannes per il festival, il che lo rende suscettibile in fatto di pareri cinematografici. Il problema è che in realtà lui è eccitato dai film feticisti, che non sono davvero il mio genere. Ad un paio di calze autoreggenti ho sempre preferito una ragazza del tutto nuda. Però il socio giovane è davvero un entusiasta, ed è assolutamente certo che se gli dessi retta mi godrei un sacco di film che ignoro. Il problema con lui è che tutti i film che gli piacciono hanno dentro una pistola, un mitra, qualche rapinatore in giacca e cravatta e capigliatura alla moda, ed una macchina da presa che saltella. A me piacciono le riprese statiche, e non ne fanno più dall’arrivo di MTV. Però è così entusiasta che davvero non me la sento di deluderlo. Prima di vendere dischi e film vendeva strumenti musicali, ed è parecchio che mi consiglia un amico da cui prendere lezioni di batteria (oltre ad avermi informato che chi mi ha venduto il rullante, il charleston ed il piatto mi ha derubato, e su questo ha assolutamente ragione). Così ieri sera mi mette in mano un film che racconta la storia di un batterista di New York. Tombola! Sembra che questo film abbia vinto il Sundance, o l’Oscar, o entrambi, o ci sia arrivato vicino; il che non è naturalmente una garanzia di per sé, però può costituire un buon argomento di conversazione. Sono praticamente certo che lo acquisterò e lo guarderò, fino a che non leggo il riassunto della trama sul retro della confezione. Ora, non puoi giudicare un libro senza averlo letto, e questo vale senz’altro anche per un film senza averlo visto (a meno che non abbia sfumature di colore nel titolo), e non sto di certo giudicando il film del batterista in questo racconto, anche se in effetti poi non l’ho comperato né tanto meno visto. Anzi, quando il mio appuntamento è arrivato, ho reinfilato il dvd negli scaffali lesto come un ladro e sono uscito di soppiatto cercando di non essere notato - anche se in effetti un ladro di solito fa il contrario.
Secondo la copertina, il protagonista del film ha lo scopo nella vita di diventare il più bravo batterista del mondo. E già qui sono due universi che cozzano, il mio e quello dello sceneggiatore. Perché il mio eroe è il Drugo Lebowski, e nel mio universo mai un batterista vorrebbe essere il più bravo del cocuzzaro. Mai un musicista vorrebbe essere un fottuto virtuoso. Un giocatore di football americano vuole essere il migliore di tutti, non un musicista rock. Ecco perché ascolto la musica invece di guardare lo sport. Quando Jerry Garcia suonava il bluegrass con Dave Grisman, questo lo guardava negli occhi e gli diceva: “Jerry no, stai sbagliando, questo pezzo non si suona così” e Jerry gli rispondeva “Dave, rilassati e suona”. Perché la musica non è una questione di virtuosismo o di seguire le note giuste, è una questione di cuore e di anima.
Per tornare al nostro batterista “vorrei-essere-il-migliore”, sogna un posto nella prestigiosa orchestra jazz del prestigioso conservatorio di New York City. Il che è molto americano e sa molto di Saranno Famosi; fosse per me, io vorrei suonare con i Commitments in un garage di Dublino piuttosto che in mezzo a tizi eleganti in giacca e cravattivo. Al massimo al Ronnie Scott a Soho a Londra, di fronte al Caffé Italia.
C’è un maestro che lo mette sotto e lo fa impazzire; un deja-vu fra Full Metal Jacket e il film sulla squadra di football. Prima di un concerto importante qualcuno perde lo spartito. Lo spartito? Un batterista jazz? Charles Mingus lo spartito lo immaginava nella testa, Miles Davis suonava il pezzo con la bocca a Jimmy Cobb e poi se non era buona la prima lo era la seconda, per non perdere la freschezza. E questo trequarti si fa sanguinare le mani a furia di provare e deve seguire uno spartito? Paul McCartney neanche la sapeva scrivere la musica, però il suo batterista si chiamava Ringo Starr.
Nella scena clou il tizio deve riuscire, perché in un caso sarà lo sgabello nella prestigiosa orchestra, nell’altro sarà la disoccupazione. Beh, che ci sarebbe di male in un dignitoso posto nei Faces?
Insomma, diciamocelo, uno sceglie di fare il batterista perché è un fancazzista e se la vuole godere, viceversa fa l’università e va a lavorare nell’ospedale di medici in prima linea. Il problema con questi film (e chi li guarda) non è un fatto di cinema, ma di sesso. Se vi piace il tizio che soffre per arrivare mentre il capo lo maltratta, delle due l'una: o da bambini avete visto troppi episodi di Dolce Remy, o siete dei masochisti, e quello che vorreste davvero non è un capo che vi insegni a fare il tre quarti, ma una valchiria che vi fustighi le natiche o un culturista borchiato che vi infili un pugno da dietro. Non è il mio genere.

mercoledì 19 agosto 2015

Chi beve birra campa cent’anni


La birra è una delle bevande alcoliche più antiche al mondo, ottenuta dalla fermentazione con lieviti di amidi (tipicamente orzo più o meno tostato) e resa amara dall’aggiunta del luppolo.
Quando ero bambino, di birra in Italia se ne beveva poca. È abbastanza comprensibile, se si considera che il nostro è uno dei paesi più tipicamente produttori di vino. Ho dei vaghi ricordi della birra Moretti, una delle più diffuse, che probabilmente fu la prima birra che assaggiai e mi parve amarissima; così come dello slogan “chi beve birra campa cent’anni” e della pubblicità della bionda birra Peroni.
La birra era un bere di turisti tedeschi, anche se io la “scoprii” nei miei viaggi in Inghilterra da adolescente.
Paradossalmente per conquistare il nostro paese, la birra ha utilizzato come cavallo di Troia uno dei simboli dell’Italia culinaria, la pizza.
Oggi anche da noi è quasi altrettanto celebrata del vino, se com’è vero alla festa degli Alpini (storicamente forti bevitori di vino e grappe) si beve ormai soprattutto birra, e se i micro birrifici indipendenti fioriscono in ogni città.
In numeri, il consumo annuo pro capite di birra in Italia è di 30 litri; in Germania il triplo, 106, in Repubblica Ceca 146, in Inghilterra 68, in Irlanda 98.

In Inghilterra la birra che si beve nei pub è servita generalmente a temperatura ambiente, tipicamente in grossi boccali, e comprende la Pale Ale, la birra chiara a bassa fermentazione e basso tasso alcolico che viene altrove chiamata Lager (che però è servita fresca). La Bitter, che è la più tipica, ambrata, amara e profumata, anche nelle varianti Mild (leggera) e Brown (o old, forte). La Stout, nera, amara, densa, poco alcolica, con una schiuma simile al cappuccino, di cui condivide anche il sapore di caffè.

In Irlanda la birra più diffusa, a partire dalla colazione, è la Stout, che comprende marchi famosi come Guiness e Murphy’s. Segue la birra rossa, l’ottima Smithwicks, cremosa e dal sapore di caramello, nota in Europa come Kilkenny. Infine le lager chiare beverine.

In Germania la birra tipica è la Pils, o Pilsner (che è sempre una lager), chiara e leggera, servita molto fredda in bicchieri alti e sottili, che ne contengono una piccola quantità per evitare che si riscaldi. Il cameriere ne porta un nuovo bicchiere in automatico ogni volta che questo viene vuotato, fino a che non chiediamo esplicitamente di smettere. Ogni città ha la sua produzione di pils, e chiederne una diversa può costarci l'attenzione del buttafuori.
Le Weiss (bianche) sono birre di frumento, opalescenti, acidule, fruttate al sapore di coriandolo e arancia.

In Belgio sono rinomati produttori di fumetti e di birre.
Le più celebrate sono le Ale, ad alta fermentazione, fruttate, speziate, acidule e ad alta gradazione, come le trappiste, le birre dei monasteri. Le Blanche sono l’equivalente delle weiss.
Le Lambic, dalle parti di Bruxelles, sono a fermentazione spontanea con lieviti selvaggi, spesso con l’aggiunta di succo di frutta (nella Krieg ciliegie).

In Spagna la birra si chiama cerveza, e tutti abbiamo assaggiato in bottigliette gelate la Estrella Dorada e la San Miguel, che sono ottime pils.

In USA la birra prende il posto dell’acqua minerale, che è consumata poco e costa molto di più. Le birre industriali che si dividono il mercato sono due: la Budweiser (in Europa Bud, slogan: “King of Beer”) e la più dolciastra Miller (slogan: “The High Life”). Si bevono gelate ed in quantità, e proprio perché sostituiscono l’acqua se ne consuma anche la versione leggerissima, la Bud Light.

La birra messicana che ha conquistato il mondo è la Corona Extra, leggera e di colore dorato, che non fa schiuma, va bevuta obbligatoriamente gelata e dalla bottiglia, magari con uno spicchio di limone o lime sul suo collo (per tenere lontane le mosche).

La miscela di birra pils e di gazosa / lemonsoda forma una bibita chiamata Panaché in Francia (due terzi di birra) e Radler in Germania (metà e metà).

martedì 14 luglio 2015

Time

(Nick Cave)

Ai (bei) tempi dell’Università, a Parma, mi capitava spesso di pranzare fuori con mio fratello. Lui ordinava sempre lo stesso piatto: era certo della riuscita, e ne era sempre soddisfatto. Io ero consapevole del fatto che sarebbe stata la scelta migliore, ma andava sempre a finire che la curiosità mi trascinava ad ordinare qualche cosa di diverso. Un piatto che non avevo ancora assaggiato, un nome che mi attirava, una curiosità da soddisfare. Quasi sempre lui mangiava meglio di me, eppure non potevo fare a meno di continuare a cambiare.
Quello che allora non sapevo è che quella sarebbe stata la metafora delle nostre vite.
Persino la strada fra casa ed il lavoro non riesco a tenerla costante: l’idea di ripetere all’infinito il già vissuto mi soffoca, e così va a finire che certi giorni faccio il doppio dei chilometri solo per cambiare, per prendere un diverso tragitto, per essere in un posto diverso.
A questa cosa pensavo oggi, quando sul social network ho trovato la pagina di un vecchio e caro amico, uno con cui ho vissuto e con cui sono stato, come si dice, culo e camicia, ma che di questi giorni non vedo più. Sai com’è, quando ti rivedi: uno sfacelo. Invece no: lui è bello, con un’aria addirittura intellettuale, sorridente in tutte le foto, circondato dalla famiglia. La moglie è la stessa che ai tempi era la sua fidanzata; ingrigita ma pure bella e sorridente. Ed i post, neanche uno dei deliri tipici di facebook, ma un piccolo mondo antico fatto di provincia nel senso più romantico e nostalgico del termine; vita sociale, partecipazione, amore per il proprio territorio. Una delle vite che avrei voluto vivere.
E intanto pensavo, ho avuto tanto amore, e tanti amori lasciati indietro, tante curve, tanti cambiamenti, la voglia di assaggiare tutto e forse un poco di rimpianto di aver sempre mollato tutto. Ho scelto una strada che forse non era la mia, per mancanza di coraggio ma anche perché all’epoca sembrava (ed era) decisamente più bella di quello che è diventata di questi giorni deludenti. Ho sognato tanti sogni, che si sono realizzati solo a spizzichi e bocconi, ho percorso tante strade, che pure ancora mi sembrano decisamente troppo poche rispetto alle infinite strade del mondo. Non ho vissuto nel paese alla Piero Chiara che le mie radici avrebbero voluto, ma neanche ho fatto il giro del mondo. Ho vissuto come ho potuto e non ho mai smesso di desiderare l’orizzonte. Forse ho preso più amore di quello che ho dato, e di questo immagino dovrò rispondere alla fine al mastro di chiavi.
L’unico rimpianto vero è di non aver abbastanza vita. Tante cose da fare ed una vita così breve. Come diceva Lorusso, ogni volta che vedo un tramonto mi girano le balle. Perché è passato un altro giorno.

martedì 23 giugno 2015

Hemingway non faceva visite a domicilio

Ha scritto qualcuno che prima dei cinquant’anni non si ha niente da dire. È per l’appunto a quell’età che ho iniziato a scrivere libri. Il primo è stato la storia del rock che avrei voluto leggere da quando, a quattordicianni, acquistai quella di Rolf Ulrich Kaiser. Naturalmente mi sono preparato un business plan: sempre a quattordici (anni) acquistavo ogni settimana una rivista intitolata Ciao 2001. Era molto popolare fra gli adolescenti. Ogni giovedì (o era mercoledì?) qualche centinaio di migliaio di studenti delle superiori andava in edicola ad offrire il suo obolo per portarsi a casa il nuovo numero, da leggere avidamente. D’altra parte quelli erano gli anni in cui in Italia nelle prime cinque posizioni della hit parade trovavi Genesis, Van Der Graaf Generator, Jethro Tull, Pink Floyd, Deep Purple. Gentle Giant e King Crimson. Mike Oldfield. Relativamente assai meno copie vendevano riviste più intellettuali e politicizzate, come Muzak e Gong. 
Nel ’78 la più autorevole rivista nazionale di musica rock era il Mucchio Selvaggio, che probabilmente vendeva (o forse semplicemente stampava) qualche cosa come trentamila copie al mese. Oggi i tempi sono cambiati, si sa, ed i giovani non leggono più riviste. Leggono sul web, o forse si collegano al web, soprattutto ai social come FaceBook e Instagram. Senza leggere. Però i cinquantenni, o porco di un cane, quelli che leggevano il Mucchio Selvaggio non sono mica tutti morti. Non saranno diventati analfabeti, dico. Non avranno smesso tutti di ascoltare musica. 
Se i miei articoli sul Mucchio li compravano in trentamila e li leggevano, diciamo, in diecimila, il business plan eccolo fatto. Io il mio libro lo comprerei. Dunque, se lo comprano in diecimila, fra eBook e cartaceo, il planning era di camparci onestamente per sei mesi (non ho gusti sofisticati, e non cerco il lusso). Siccome scrivere il primo libro aveva dato la stura ad una cascata di cose di dire, avevo (ho) una bella sfilza di libri da scrivere. L’idea era che vendendone diecimila di ogni titolo, alla media di due libri all’anno avrei potuto lasciare il lavoro e diventare uno scrittore di nicchia di professione. Anzi, l’avevo pensata un po’ più in grande: uno scrittore senza domicilio, in giro per il mondo, un po’ in moto, un po’ come capita, a battere sulla tastiera consunta di un vecchio MacBook sul davanzale di posti come il Tropicana Hotel. Come Hemingway. Ditemi se non era un buon business plan. 
Dicono che in Italia non leggano più, e meno che mai ascoltino musica rock. Sì va beh, ma allora cosa fanno? Guardano il derby su Sky Sport? Mettono dei mi piace sui post di FaceBook? Ma quelli come me, sono finiti tutti all’ospizio? Un po’ presto, non vi pare? 
Immaginavo che avrei venduto un sacco di eBook, e anche un po’ di libri di carta per i nostagici del passato. 
Quando mi sono trovato al numero 1 della classifica dei libri di argomento musicale venduti su Amazon, ho pensato di cercare una Porsche cabrio vintage, come quella che guida Springsteen. Prima però ho verificato il numero di vendite: una dozzina. In quella occasione ho imparato che quello elettronico in Italia non è ancora un mercato maturo. Ma restano pur sempre le librerie, quelle che non hanno ancora chiuso, ed i libri di carta, con il profumo inconfondibile e la copertina da piegare. Per arrivare in libreria i libri devono essere distribuiti: ho pensato a Feltrinelli. Non riesci neanche a parlarci. Probabilmente ti serve prima una recensione su Repubblica, e a me dei quotidiani ha recensito solo Il Fatto Quotidiano (grazie). Ho pensato allora alla autodistribuzione. Anzi, per un attimo l’idea mi ha elettrizzato: portare in giro i miei libri per tutta Italia su un furgoncino VolksWagen o una Multipla, sai che esperienza, una vera e propria scelta di vita. Roba da scriverci un diario. E materiale per le interviste, quando sei arrivato al successo. Ho pensato: apro una casa editrice, dichiaro i guadagni, tolgo le spese, su quello che resta pago (volentieri) le tasse. Ma il commercialista mi ha detto che è una pazzia: per imbarcarti in un’impresa del genere devi avere qualche centinaio di migliaia di euro come capitale, solo per le tasse occulte da pagare. Ma se avessi qualche centinaio di migliaia di euro, non avrei bisogno di imbarcarmi in nessuna impresa. C’è qualche cosa che non funziona nel mondo del lavoro di questo paese, indipendentemente dal fatto che il presidente del consiglio sia settantenne o quarantenne. 
Che poi, a dirla tutta, la distribuzione non è la madre di tutti i problemi. Perché non è che se il libro riesci ad esporlo sullo scaffale di un negozio di libri, quello si metta a vendere. L’unico che me li vende con una certa regolarità è il mio amico che gestisce una libreria Mondadori. Dove regolarmente significa una dozzina di copie ogni sei mesi. Che all’inizio mi vergognavo, ma mi ha spiegato che i numeri sono questi. E anche lui con la libreria è in perdita, e non si sa fino a quando riuscirà a resistere. Ogni tanto passo alla libreria dell’IperCoop, che ho scoperto ha esposto quattro copie del mio Long Playing, la storia del rock. Sono sempre esposte, e grosso modo sono sempre quattro. Non so se c’è un ricambio, mi vergogno a chiedere. Come mi vergogno ad andare a chiedere come vanno le vendite in quella mezza dozzina di librerie indipendenti in cui ho tenuto qualche presentazione. Esposti non li sono più: venduti o passati in magazzino? 
Insomma, più che sulle diecimila copie a libro, siamo sul centinaio (che son comunque sempre più dei venticinque del Manzoni). Che vuol dire che il mio posto di lavoro non posso lasciarlo, a meno che non mi licenzino. E che i libri non li posso scrivere al Tropicana Hotel, ma a casa mia nei momenti di quiete, fra il lavoro, il pranzo, la cena, la doccia, il letto e qualche pizza. 
Ma non demordo, perché i libri sono come figli, e premono per uscire, mica li posso abortire. Magari invece di due all’anno, farò uno solo. Dopo Long Playing e Perché non lo facciamo per la strada, quest’anno tocca a Il Ritorno del Rock, che è un capolavorone, un libro con dentro David Bowie, le New York Dolls, Springsteen, Patti Smith, Warren Zevon, Tom Waits, Ramones e Sex Pistols, gli Smiths, R.E.M., Green On Red, Nirvana, Phish e Dave Matthews Band, Wilco e Black Crowes, e dozzine e dozzine di altri, tutti quanti in un libro solo. Non so se mi spiego. 
Perché non lo facciamo per la strada è piaciuto molto ai lettori rock. È piaciuto anche ai lettori non rock, ma si sono lamentati che c’erano dentro troppi nomi di cantanti e di dischi e di canzoni. Così l’anno prossimo toccherà a un libro intitolato Blue Motel, con dentro i giovani degli anni cinquanta e sessanta e settanta, ma senza titoli di dischi. E l’anno dopo dopo sarà la volta di Il TAO della Motocicletta, dove il TAO è sia la strada fisica dove corrono le due ruote, che la filosofia del motociclista. E poi ancora, dopo, premono I Ruggenti Anni Settanta, e La Musica Pop (che non è quella leggera, ma quella d’avanguardia  come la si chiamava ai tempi), e Muzak e altro ancora. 
Io li scrivo. Voi leggeteli. E se per caso avete una grossa casa editrice, o una gran bella catena di librerie, contattatemi. 

mercoledì 8 aprile 2015

il tempo


«Beato te che non capisci niente».
Vero. Il mondo è dei semplici, di chi si fa poche domande e si da ancora meno risposte. C’è qualche cosa nell’intelligenza che arriva ai confini del lecito, e che l’evoluzione stessa deve tenere a freno. L’idiota non lo ammazzi, lui sa tutto quello che deve sapere e non perde il tempo a masturbarsi la mente sulle cose che non lo riguardano e soprattutto che non lo aiuteranno a stare meglio.
Passava una cometa. Cinquanta milioni di uomini pensano alla sfortuna, al fato, agli dei. Uno la riconosce come un fenomeno celeste, ne calcola l’orbita e ne predice persino il ritorno qualche secolo dopo, quando nessuno dei presenti sarà vivo a vederla. Chi sta meglio? Immagino l'uomo con addosso una tonaca, e che ha visto (e mostrato) nell’evento un segno del potere del dio che rappresenta. Perché a pensare, non arrivi da nessuna parte. Ogni risposta che trovi contiene due nuove domande. Perché il nostro orizzonte delle conoscenze è limitato, e troppo ce n’è, oltre (ed oltre, ed oltre). Mentre noi siamo piccoli così. Prendi il tempo, per esempio. Non puoi fartene una ragione del tempo, non puoi comprenderlo: è troppo fuori dalla nostra esperienza. È infinito il tempo? Dura per sempre, e prosegue sempre nella medesima direzione? Se il tempo fosse infinito, questo preciso istante lo dividerebbe a metà. Due metà di infinito che, la matematica ci insegna, sono altrettanti infiniti. Anche il mezzo tempo prima di questo istante sarebbe infinito. Ma se così fosse, se prima di questo istante ci fosse un infinità di tempo, questo istante non sarebbe mai arrivato, perché ci sarebbe sempre un tempo infinito prima di adesso.
Sarebbe dunque il tempo finito?
Sferico magari, come la superficie di un pianeta o di una stella, per citare i corpi celesti più tipici dell’Universo? E su questa sfera noi non saremmo più che fuscelli, trasportati dalla corrente di un insignificante ruscello, per l’attimo minuscolo della nostra vita? E poi?
Come dice Woody Allen: «Non ho niente contro la morte, è solo che si muore per troppo tempo». Come si può concepire di esistere per un tratto minuscolo di tempo, per poi scomparire per sempre. Sempre sempre. O per dirla meglio: non tornare mai più? Inconcepibile. Per forza le persone devono crearsi un aldilà, ed un Dio. Si muore in questa valle di lacrime, ma solo per tornare nel più desiderabile dei villaggi vacanza. Tutto gratis, felicità per sempre. Sempre: di nuovo il tempo.
Ti svegli, San Pietro ti da il benvenuto, e ti ritrovi in un mondo di perfetta beatitudine. In Paradiso non sei né bello né brutto, né figo né storpio, né intelligente né idiota, sei pura essenza, pura anima, assolutamente felice, come sotto eroina. Per sempre.
Non avrai rancore, e neanche amore specifico. Non per la moglie che hai amato, ma che dopo la tua morte si è risposata e si trova qui in Paradiso con il secondo marito. Non per la donna che non ti ha voluto, e che anche in Paradiso ha di meglio da fare. Neanche rancore per Adolfo Hitler, o per il tuo assassino. Perfettamente felice, e basta. Assolutamente felice per dieci giorni, anche se non c’è nulla da fare. Perfettamente beato. Per dieci anni. Per dieci decadi. Per dieci secoli. Per dieci millenni… Comincia a farsi lunga. Ed è solo l’inizio dell’infinità del tempo. E dopo 100000000000000000000000000 infinità, è ancora solo l’inizio. No, non può essere così, troppo noioso per qualsiasi standard.
Forse non sarà dunque il Paradiso. Forse sarà il ciclo delle eterne rinascite. Quante rinascite? Perché fra 4 miliardi di anni non ci sarà più una Terra su cui rinascere, perché sarà stata incenerita dal Sole. Si potrebbe sempre rinascere da un’altre parte. Fino che, ad un certo punto, non esisterà più neanche un Universo. Ma nessuno ha in effetti sostenuto che il ciclo delle rinascite sarà senza fine. Ad un certo punto, a furia di vivere ci saremo abbastanza purificati da sublimarci, innalzarci e fonderci nel Nirvana, perdendo la nostra limitata individualità per fonderci nel Tutto. Dove il tempo, finalmente, non esiste. E che in vita non possiamo neppure provare a concepire. Ed allora, perché perdere tempo a calcolare il moto delle comete, quando possiamo ubriacarci, accoppiarci, amarci, ed ascoltare il rock’n’roll?

domenica 15 marzo 2015

Puerto Escondido


Vedere il film di un libro è sempre un problema. Lo stesso problema è leggere il libro di un film così fondamentale. Puerto Escondido è stato l’ultimo di quella straordinaria sequenza di film di Salvatores & compagni che per la mia generazione hanno assunto lo status di cult. Trilogia della fuga, sono stati definiti, anche se i film in effetti sono quattro; ma lo trovo corretto, perché la trilogia della fuga per me è costituita da Marrakech Express, Mediterraneo e Puerto Escondido, mentre Turné in realtà è un film sull’amore e l’amicizia. Dopo Puerto Escondido, anno 1992 (ventitré anni fa, non so se mi rendo conto di quello che dico) non mi pare che nessun film italiano abbia più avuto lo stesso peso per la generazione Beat.
Quando siamo andati al cinema a vedere il film, il libro di Pino Cacucci non lo aveva praticamente letto nessuno. Ed anche dopo non è diventato un best seller.
Cacucci è un tipo particolare. Classe ’55, ligure di adozione ed anche un po’ bolognese, è in realtà più messicano che italiano, sia di cuore che di viso. A proposito di fuga, Cacucci è un fuggitivo, che in Italia non aveva messo radici, e che ha trovato in Messico una inusuale terra promessa. Di lui va letto senz'altro La Polvere del Messico, per come riesce a contagiare il lettore con la sua passione verso un paese che in realtà di noi italiani non aveva mai attirato nessuno, sin dai tempi di Zorro e degli spaghetti western. Insomma: chi voleva essere il messicano?
All’epoca Diego Abatantuono ha letto il libro di Cacucci (Puerto Escondido, non la polvere del Messico), lo ha portato a Salvatores e, zac, è nata l’idea del seguito di Mediterraneo. Ma la Mondadori, la casa editrice di Cacucci, non ha spinto il libro e nemmeno l’ha più ristampato, per cui è diventato l’unico dei suoi romanzi a diventare introvabile. Oggi, che è stato stampato di nuovo da Feltrinelli, l’ho finalmente letto anch’io. Con, ça va sans dire, grandi aspettative. Pensavo naturalmente di avere fra le mani un potenziale libro di culto, e di rivivere le vicende del film. È il problema dei film tratti dai libri: non c’è verso di essere imparziali.
Perché il racconto del libro, ho scoperto, non è quello del film. Il film è stato generato dall’idea del libro, ma il racconto è tutt’altro. Ed i personaggi sono altri. Nel libro non ci sono i personaggi del film. Non c’è Mario, non ci sono Alex, Anita e il commissario Viola. Non c’è neppure il gallo. Il protagonista del film è un milanese perfettamente integrato, imbruttito diremmo oggi, che il destino porta di violenza in un mondo che non è suo, ed in cui non vuole integrarsi. Quello del libro è facile immaginarlo, è il Pino stesso, straniero in patria, che trova la terra promessa in Messico. La storia è diversa, la trama è diversa, il senso è diverso. E quanto la storia del film era agile e scattava con un meccanismo ad orologeria a la Pulp Fiction (un gran lavoro di sceneggiatura), tanto il racconto di Cacucci è un giallo complesso e complicato, pieno di tornanti, come tipico dei suoi romanzi, che qualcuno ama, ed altri trovano eccessivi. C’è persino una intera parte decisamente fuori tema, quella a Barcellona, che è facile immaginare come un diario personale dello stesso autore, una specie di prova generale de La Polvere del Messico, ma senza la stessa riuscita.
Non un brutto libro, anzi. Tutt’altro. Ma, non per colpa sua: eretico. Io mi sono fermato a pagina 333 (su 398). Perché quando il protagonista chiede a tre tizi e non al commissario Viola di aiutarlo nell’impresa di salvare l’amico arrestato dalla polizia messicana, ecco, io lì non ce l’ho fatta a proseguire. Era chiedermi troppo.

giovedì 1 gennaio 2015

La storia di Natale del 2014


Immaginate. Immaginate di essere vecchi vecchi vecchi, al capolinea della vostra vita. In un letto.
Vi guardate le mani rattrappite dall’artrosi, e non ci potete credere. Una stanza bianca, che neanche riconoscete. Avete ricordi solo di quando eravate più giovani. Ricordate di quello che avevate e di quello che oggi non avete più. L’infermiera dice che è la notte di Natale. Vi fa pensare alle notte di Natale di tanto anni prima, quando magari passeggiare nella folla vi irritava, e gli alberi e le palline non vi dicevano niente. Pensate che quello che desiderereste davvero è una macchina del tempo, che vi riporti al Natale di quando eravate più giovani, alle persone che avete perso, al posto dove vivevate. Quando eravate felici senza neanche saperlo.
Ma tornare indietro nel tempo è impossibile, si sa...
Sicuri? Chiudete gli occhi e riapriteli.
Esauditi! Buon Natale.


P.S.: ok, leggete qui la storia di Natale di BEAT