martedì 30 ottobre 2012

Portovenere


Era il 7 gennaio 2011, il giorno dopo l’epifania. Lo so perché c’è scritto di fianco alle fotografie che avevo postato allora su FaceBook. Una mattinata nuvolosa di pioggia sottile e ghiacciata, e io accompagnavo mia figlia a casa di sua madre, dopo aver speso con lei la prima settimana dell’anno. Per l'ennesima volta il sottile dolore del distacco e poi mi ero ritrovato di nuovo solo, in auto, mentre il parabrezza si confondeva di microscopiche gocce di pioggia fra un colpo e l'altro del tergicristalli. Non ero per niente sicuro di aver voglia di tornare in campagna a casa mia, nella Big Pink a Woodstock, Val Trebbia, una casa calda e accogliente ma vuota, ancora di più con fuori il gelo e la pioggia. Non era li che volevo tornare e così, senza neanche deciderlo, mi trovavo a puntare il volante sulla strada verso un confine più lontano: l’autostrada che valica l’Appennino, verso Genova, dove la temperatura non ti impedisce in nessun momento dell’anno di passeggiare. Non ricordo i dettagli, immagino di essere uscito a Genova e di aver imboccato quella suggestiva sopraelevata dove le auto e le moto ti sorpassano nervose da destra e da sinistra come in un grand prix, di aver fiancheggiato il matitone e il porto vecchio per dirigermi poi verso strade tanto suggestive quanto anguste, dai nomi di Nervi, Bogliasco, Recco… Senz’altro ho percorso il levante fino a Sestri, ho parcheggiato l’auto sul lungomare di fronte al Pescatore e sotto una pioggia sottile ma non più fredda ho passeggiato fino alla Baia del Silenzio. Ho camminato con le scarpe dalle suole di gomma sulla sabbia scura e compatta di quella spiaggia così bella da toccarti l’anima, sono salito da solo verso il convento, da cui c’è una visione d’insieme della deliziosa baia, con poche barche di pescatori e le finestre delle case perlopiù chiuse.
Il sole non avrebbe potuto toccarmi l’anima più di quella pioggia, che invece di dar fastidio era come il tocco gentile di un cielo che mi capiva, empatico, un cielo coerente, un cielo che mi faceva sentire affamato, pieno d’amore per la vita e di amore da dare e da ricevere. Ho passeggiato a lungo sotto la pioggia prima di risalire in auto, cercare l’autostrada e raggiungere La Spezia, una città assolutamente di mare che si sviluppa attorno al suo porto militare, da cui è ripagata da una lunga muraglia che le nasconde la vista della costa. Spezia, come la chiamano i suoi abitanti, per chi l’attraversa senza neppure fermarsi è come un’isola felice, uno scalo verso posti dell’immaginazione come le 5 Terre, Portovenere, oppure Livorno e la Versilia Toscana e le Apuane. Io quel pomeriggio, che ormai imbruniva perché all’inizio di gennaio il sole non dura (e quel giorno meno che mai, nascosto dalle nuvole) seguii tutto quanto il lungo mare, girai a destra in fondo al viale lungo il porto militare e poi a sinistra al semaforo seguendo il lungo periplo della muraglia per tutta la sua estensione fino a dove la città finisce ed un bivio preso verso il basso ti porta su una strada che arriva solo a Portovenere e li si ferma.
Portovenere non è un semplice suggestivo paesino di mare. È un’esperienza onirica, e quando non ci sono troppi turisti nella passeggiata verso la cattedrale sullo scoglio, anche un po’ mistica. È un paese che sfida la verosimiglianza della geometria e della fisica, un posto come lo puoi vivere in sogno, con quell’isola che incombe così vicina che ti sembra di toccarla eppure irraggiungibile se non in barca. Con la fila serrata di case altissime da vertigine che guardano il mare che sembrano le ombre dipinte di una parete dolomitica. Una lunga scalinata nascosta che appare all’improvviso un po’ misteriosa senza indicazioni, e se l’arrampichi ti porta nel cuore del paese, che a sua volta è una strada che esce dalle case, sfiora le vertigini della grotta di Lord Byron e prosegue per la punta, uno scoglio circondato da tutti i lati da un mare sconfinato, su cui sorge dalla roccia una cattedrale gotica attorno alla quale ancora si arrampica una scaletta viscida che porta a quello che ti pare la cima al mondo (a meno che tu non ti arrampichi verso il castello dall’aspetto moresco, così in alto sulle rocce che da lì quella che ti pareva la cima del mare è invece una scoglio laggiù, ma lì non ci arrivano o quasi turisti). Sul fianco di una barca da pescatori una mano ha dipinto la scritta: “Signore, un mare così grande, una barca così piccola”.
Essere del tutto solo, nel buio della notte di inizio d’anno, sulla piattaforma viscida della terrazza della cattedrale, circondato solo da un mare che più che lasciarsi vedere senti e avverti, senza nessuno a casa ad aspettarti, ti da l’impressione di essere molto lontano dal mondo e (in quel silenzio) molto vicino a te stesso, tanto che è difficile risolverti a interrompere quel momento così unico e tornare, fradicio di acqua salmastra, verso le luci per quanto fioche del paese degli uomini. Quella sera entravo così in una taverna, piccola ma piena di tavoli di legno e di bottiglie, uno di quei ristoranti di cucina ligure, che non è di pesce nobile (che pure cucinano meglio di qualunque altro posto al mondo) ma di acciuge e di pesto. Nel locale non c’erano che la cameriera, molto giovane ma dalla grinta piratesca, e la musica di De André, canzoni che lei accompagnava sottovoce e che mi veniva da pensare avevo ascoltato prima che lei nascesse. Un bicchiere di pigato per scaldarmi, poi uno di vermentino per viziarmi ed un piatto di spaghetti olio e acciughe - che mi sembrarono buonissimi, mentre De André cantava Dolcenera e adesso lo accompagnavo anch’io senza vergognarmi della mia voce stonata. Una giornata inaspettatamente stregata, che dimostra come può esserci bellezza anche nella solitudine, ma che pure non vedevo l’ora di potere prima o poi condividere di nuovo con qualcuno. Qualcuna che avevo sempre saputo esistere in qualche posto, ignaro io del suo nome e lei del mio, ma la cui esistenza in quel giorno pure fra milioni di donne mi sembrava così improbabile. Qualcuna che invece esisteva davvero, che anche mi cercava con la mia stessa difficoltà perché anche lei non conosceva il mio nome, e che avrei incrociato ed avrei riconosciuto di lì a più di un anno. (Ma quanto conta il tempo?)
È con lei che ieri, in una giornata non più di pioggia ma di sole e di cielo dai colori di una bellezza irreale, sono tornato sugli stessi passi. Dalla spiaggia scura della baia del silenzio, questa volta calda nel tepore del sole di fine ottobre, dove ad un tavolino all’aperto abbiamo gustato quel vermentino che è così assolutamente delizioso solo quando lo bevi in una brocchetta da mezzo o da quarto di litro ad accompagnare qualche oliva, qualche pezzo di focaccia ed uno spaghetto allo scoglio. E poi rigorosamente Spezia, il muro del porto e su e giù fino a Portofino. In un passeggiare abbracciati che profuma di felicità.

 



martedì 23 ottobre 2012

THX 1138



C’era una volta il telefono fisso. Ok, prima ancora non c’era neppure quello, c’era il "posto telefonico pubblico", e prima di Bell / Meucci il telefono non c’era affatto. Ma insomma, ai tempi di chi scrive e di chi legge c’era il telefono fisso, quello che ti chiamavano e chiedevano a tua madre “è in casa?” e se non c’eri lasciavano detto. Al rientro se qualcuno se ne ricordava ti avvisava. In Memphis Tennessee lo zio di Chuck Berry gli lascia un appunto pro-memoria di una chiamata sul muro di fianco al telefono.
Quando poi siamo andati a vivere da soli abbiamo acquistato una segreteria telefonica con la cassetta a nastro magnetico (la mia era nera lucida di marca Pioneer), che quando rientravi un numero sul display lampeggiante riportava il numero di chiamate ricevute, che magari c’era scritto 13, tu le ascoltavi facendole scorrere velocemente, e neanche una era quella che aspettavi.
Poi sono arrivati i telefoni cellulari, il Motorola MicroTac, il web fino ai giorni nostri...

Mi è capitato ciclicamente di leggere su qualche blog di “esperimenti” del tipo “vivere una settimana senza computer”, “vivere una settimana senza web”, “vivere una settimana senza e-mail”. Ma siccome il tempo corre veloce, la rete è rapidamente uscita dai confini del computer per legarsi tutta attorno a noi per tenerci sempre collegati ovunque e in ogni momento - per esempio tramite iPhone o Android.
La frustrazione legata ad un giorno di leggero malfunzionamento della rete (sensibilmente più lenta del normale) mi ha portato così a domandarmi: come sarebbe vivere 24 ore senza web? La risposta al lordo dell’esperimento è ovviamente che sarebbe vivere male.
Ma quanto male - preciso - senza cellulare, posta elettronica, world wide web, facebook, message?
Di più: sarebbe anche semplicemente tecnicamente possibile provarci? Per esempio, come potrei farlo in un giorno di lavoro, visto che con un computer collegato ed un telefono ci lavoro?
In un giorno del week-end l’esperimento sarebbe ugualmente valido? E davvero potrei permettermi anche di sabato di non ricevere (e rispondere a) telefonate e messaggi rischiare l’intervento della forza pubblica? Quanto meno dovrei preventivamente inviare una dozzina di messaggi e piazzare un avviso in bella evidenza su FaceBook...

Mi pare così di essere diventato il personaggio di uno di quei film di fantascienza ambientati in società distopiche che vivono nel sottosuolo, che quando in fuga o per errore emergono in superficie, sono terrorizzati dal cielo.
(Con tutto che sono andato a vivere in campagna e senza TV, ma naturalmente con un collegamento internet…)