martedì 23 giugno 2015

Hemingway non faceva visite a domicilio

Ha scritto qualcuno che prima dei cinquant’anni non si ha niente da dire. È per l’appunto a quell’età che ho iniziato a scrivere libri. Il primo è stato la storia del rock che avrei voluto leggere da quando, a quattordicianni, acquistai quella di Rolf Ulrich Kaiser. Naturalmente mi sono preparato un business plan: sempre a quattordici (anni) acquistavo ogni settimana una rivista intitolata Ciao 2001. Era molto popolare fra gli adolescenti. Ogni giovedì (o era mercoledì?) qualche centinaio di migliaio di studenti delle superiori andava in edicola ad offrire il suo obolo per portarsi a casa il nuovo numero, da leggere avidamente. D’altra parte quelli erano gli anni in cui in Italia nelle prime cinque posizioni della hit parade trovavi Genesis, Van Der Graaf Generator, Jethro Tull, Pink Floyd, Deep Purple. Gentle Giant e King Crimson. Mike Oldfield. Relativamente assai meno copie vendevano riviste più intellettuali e politicizzate, come Muzak e Gong. 
Nel ’78 la più autorevole rivista nazionale di musica rock era il Mucchio Selvaggio, che probabilmente vendeva (o forse semplicemente stampava) qualche cosa come trentamila copie al mese. Oggi i tempi sono cambiati, si sa, ed i giovani non leggono più riviste. Leggono sul web, o forse si collegano al web, soprattutto ai social come FaceBook e Instagram. Senza leggere. Però i cinquantenni, o porco di un cane, quelli che leggevano il Mucchio Selvaggio non sono mica tutti morti. Non saranno diventati analfabeti, dico. Non avranno smesso tutti di ascoltare musica. 
Se i miei articoli sul Mucchio li compravano in trentamila e li leggevano, diciamo, in diecimila, il business plan eccolo fatto. Io il mio libro lo comprerei. Dunque, se lo comprano in diecimila, fra eBook e cartaceo, il planning era di camparci onestamente per sei mesi (non ho gusti sofisticati, e non cerco il lusso). Siccome scrivere il primo libro aveva dato la stura ad una cascata di cose di dire, avevo (ho) una bella sfilza di libri da scrivere. L’idea era che vendendone diecimila di ogni titolo, alla media di due libri all’anno avrei potuto lasciare il lavoro e diventare uno scrittore di nicchia di professione. Anzi, l’avevo pensata un po’ più in grande: uno scrittore senza domicilio, in giro per il mondo, un po’ in moto, un po’ come capita, a battere sulla tastiera consunta di un vecchio MacBook sul davanzale di posti come il Tropicana Hotel. Come Hemingway. Ditemi se non era un buon business plan. 
Dicono che in Italia non leggano più, e meno che mai ascoltino musica rock. Sì va beh, ma allora cosa fanno? Guardano il derby su Sky Sport? Mettono dei mi piace sui post di FaceBook? Ma quelli come me, sono finiti tutti all’ospizio? Un po’ presto, non vi pare? 
Immaginavo che avrei venduto un sacco di eBook, e anche un po’ di libri di carta per i nostagici del passato. 
Quando mi sono trovato al numero 1 della classifica dei libri di argomento musicale venduti su Amazon, ho pensato di cercare una Porsche cabrio vintage, come quella che guida Springsteen. Prima però ho verificato il numero di vendite: una dozzina. In quella occasione ho imparato che quello elettronico in Italia non è ancora un mercato maturo. Ma restano pur sempre le librerie, quelle che non hanno ancora chiuso, ed i libri di carta, con il profumo inconfondibile e la copertina da piegare. Per arrivare in libreria i libri devono essere distribuiti: ho pensato a Feltrinelli. Non riesci neanche a parlarci. Probabilmente ti serve prima una recensione su Repubblica, e a me dei quotidiani ha recensito solo Il Fatto Quotidiano (grazie). Ho pensato allora alla autodistribuzione. Anzi, per un attimo l’idea mi ha elettrizzato: portare in giro i miei libri per tutta Italia su un furgoncino VolksWagen o una Multipla, sai che esperienza, una vera e propria scelta di vita. Roba da scriverci un diario. E materiale per le interviste, quando sei arrivato al successo. Ho pensato: apro una casa editrice, dichiaro i guadagni, tolgo le spese, su quello che resta pago (volentieri) le tasse. Ma il commercialista mi ha detto che è una pazzia: per imbarcarti in un’impresa del genere devi avere qualche centinaio di migliaia di euro come capitale, solo per le tasse occulte da pagare. Ma se avessi qualche centinaio di migliaia di euro, non avrei bisogno di imbarcarmi in nessuna impresa. C’è qualche cosa che non funziona nel mondo del lavoro di questo paese, indipendentemente dal fatto che il presidente del consiglio sia settantenne o quarantenne. 
Che poi, a dirla tutta, la distribuzione non è la madre di tutti i problemi. Perché non è che se il libro riesci ad esporlo sullo scaffale di un negozio di libri, quello si metta a vendere. L’unico che me li vende con una certa regolarità è il mio amico che gestisce una libreria Mondadori. Dove regolarmente significa una dozzina di copie ogni sei mesi. Che all’inizio mi vergognavo, ma mi ha spiegato che i numeri sono questi. E anche lui con la libreria è in perdita, e non si sa fino a quando riuscirà a resistere. Ogni tanto passo alla libreria dell’IperCoop, che ho scoperto ha esposto quattro copie del mio Long Playing, la storia del rock. Sono sempre esposte, e grosso modo sono sempre quattro. Non so se c’è un ricambio, mi vergogno a chiedere. Come mi vergogno ad andare a chiedere come vanno le vendite in quella mezza dozzina di librerie indipendenti in cui ho tenuto qualche presentazione. Esposti non li sono più: venduti o passati in magazzino? 
Insomma, più che sulle diecimila copie a libro, siamo sul centinaio (che son comunque sempre più dei venticinque del Manzoni). Che vuol dire che il mio posto di lavoro non posso lasciarlo, a meno che non mi licenzino. E che i libri non li posso scrivere al Tropicana Hotel, ma a casa mia nei momenti di quiete, fra il lavoro, il pranzo, la cena, la doccia, il letto e qualche pizza. 
Ma non demordo, perché i libri sono come figli, e premono per uscire, mica li posso abortire. Magari invece di due all’anno, farò uno solo. Dopo Long Playing e Perché non lo facciamo per la strada, quest’anno tocca a Il Ritorno del Rock, che è un capolavorone, un libro con dentro David Bowie, le New York Dolls, Springsteen, Patti Smith, Warren Zevon, Tom Waits, Ramones e Sex Pistols, gli Smiths, R.E.M., Green On Red, Nirvana, Phish e Dave Matthews Band, Wilco e Black Crowes, e dozzine e dozzine di altri, tutti quanti in un libro solo. Non so se mi spiego. 
Perché non lo facciamo per la strada è piaciuto molto ai lettori rock. È piaciuto anche ai lettori non rock, ma si sono lamentati che c’erano dentro troppi nomi di cantanti e di dischi e di canzoni. Così l’anno prossimo toccherà a un libro intitolato Blue Motel, con dentro i giovani degli anni cinquanta e sessanta e settanta, ma senza titoli di dischi. E l’anno dopo dopo sarà la volta di Il TAO della Motocicletta, dove il TAO è sia la strada fisica dove corrono le due ruote, che la filosofia del motociclista. E poi ancora, dopo, premono I Ruggenti Anni Settanta, e La Musica Pop (che non è quella leggera, ma quella d’avanguardia  come la si chiamava ai tempi), e Muzak e altro ancora. 
Io li scrivo. Voi leggeteli. E se per caso avete una grossa casa editrice, o una gran bella catena di librerie, contattatemi.