domenica 29 novembre 2015

il film americano del batterista


Dunque, ieri sera (era sabato sera e siccome siamo in novembre, quasi dicembre, era già buio come se fosse notte, anche se i negozi sono ancora aperti), vedo la vetrina illuminata del negozio di dischi e penso che sia piacevole entrare per un saluto agli amici. Non era il sabato sera sfigato di un sabato sfigato: ho avuto i miei momenti sfigati, ma per fortuna invecchio bene come un vino toscano, e i miei sabati stanno andando a gonfie vele. Me ne tornavo da una splendida giornata in giro per una Modena prenatalizia (ed il centro di Modena prima di Natale è una meraviglia), mi ero fatto un bel po’ di autostrada con un’auto che gira rotonda che è un piacere, ed ero solo stanco e desideroso di godermi una serata di riposo sotto il piumone. Ma non sarebbe stato piacevole addormentarmi guardando un bel film, di quelli che ti riscaldano il cuore? Anche se purtroppo film buoni non ne girano più da un pezzo. Non sono mai stato uno da “andiamo al cinema a passare una serata in compagnia” ma uno da “andiamo a vedere un film”. C’è differenza: è come “facciamo una tavolata per stare assieme”, oppure “andiamo al ristorante a mangiare bene”. Si va al cinema per passare il tempo, e giusto per caso sullo schermo proiettano qualcosa; invece si va a vedere un film per vedere il film. Da giovane volevo fare il regista. Ho  passato almeno dieci anni della mia infanzia a vedermi puntualmente un film al cinema ogni domenica; a sei anni con il nonno, a 13 con gli amici. Poi il lunedì, a scuola, durante l’ora di religione, raccontavo il film ai compagni. Lo raccontavo veramente, con gli alunni seduti a semicerchio attorno a me a bocca aperta in fondo all’aula. C’era chi sosteneva che fosse meglio ascoltare il film che vederlo al cinema. Poi il regista non l’ho fatto, ed il mondo ha di certo perso qualche cosa, ma insomma.
Questo per dire che il cinema per me è una specie di fatto religioso. Non riesco a vedere un film che non è bello, o meglio, non riesco a vedere un film che non mi piace. Esco a metà. Sai quanti amici si sono incazzati, quando fra il primo ed il secondo tempo annunciavo che sarei uscito dalla sala? Ma per me era importante, era come informare il regista che il suo film era una cagata. Se un film non mi piace, non c’è verso che io ne guardi il finale; sarebbe un’atto di viltà, sarebbe una resa della mia integrità nei confronti di questo entertainment di stampo televisivo.
Così il sabato sera entro nel negozio di dischi dei miei amici, con la vetrina illuminata che nella serata buia e gelida promette se non un nirvana almeno una dose di calore umano. Parlo di un negozio che esiste dai tempi buoni, dai giorni di gloria dei dischi e della musica rock. Dai giorni in cui le copertine avevano un profumo, e da prima che i film si potessero acquistare. Di questi tempi che i negozi di dischi non esistono più neanche a Londra e NYC, ogni volta che ne varco la soglia mi prende il sospetto che in realtà il negozio sia la copertura di qualche cosa di più remunerativo; non voglio insinuare il meretricio o lo spaccio di stupefacenti e neanche il gioco d’azzardo; penso a qualche cosa come la sede di una cellula del KGB. Tutte le volte mi stupisco invece di trovarlo ben pieno di cienti, con le persone in coda alla cassa con un CD in mano, a dispetto dell’esistenza di Spotify, o con un DVD, a dispetto di Sky. Un’umanità variegata, di cui i miei amici per assicurarsi la fama invece di vendere dischi dovrebbero scrivere la cronaca. Dunque entro, in attesa dell’arrivo di un appuntamento, con la vaga speranza di trovarmi per le mani un film che mi sorprenda, ma con la certezza che non succederà. Tutti i film che mi piacciono li hanno girati negli anni settanta, quando le telecamere era fisse e le sceneggiature erano la parte più importante. Quando le macchine americane nei film erano americane e non asiatiche. Gli ultimi film buoni che sono stati girati si intitolano Pulp Fiction (quando ancora io passeggiavo abbracciato con il primo amore), Eyes Wide Shut (quando ancora non mi ero mai sposato), e Tenebaum (e li in effetti era già il nuovo millenio). The Royal Tenebaum, un capolavoro, l’unico film di Wes Anderson che vale la pena di vedere e rivedere, perché gli altri sono solo dei tentativo zuccherosi di rifarlo, e perché dovresti guardare una copia mal riuscita se hai in mano l’originale?
Così butto l’occhio alle solite copertine, e mi fermo a leggere il retro dei soliti DVD, quelli di Woody Allen, di Almodovar o chessò io, domandandomi per esempio se valesse la pena di guardare Magic In The Moonlight. Anche se ultimamente sono diventato un cattivo cliente, i miei amici del negozio di dischi sono davvero gentili, e ce n’è sempre qualcuno che spreca il suo tempo con un consiglio. Veramente il socio mio coetaneo ci ha rinunciato, credo perché si sia offeso che gli abbia stroncato alcuni dei suoi film francesi preferiti. Da quando lo conosco va tutti gli anni a Cannes per il festival, il che lo rende suscettibile in fatto di pareri cinematografici. Il problema è che in realtà lui è eccitato dai film feticisti, che non sono davvero il mio genere. Ad un paio di calze autoreggenti ho sempre preferito una ragazza del tutto nuda. Però il socio giovane è davvero un entusiasta, ed è assolutamente certo che se gli dessi retta mi godrei un sacco di film che ignoro. Il problema con lui è che tutti i film che gli piacciono hanno dentro una pistola, un mitra, qualche rapinatore in giacca e cravatta e capigliatura alla moda, ed una macchina da presa che saltella. A me piacciono le riprese statiche, e non ne fanno più dall’arrivo di MTV. Però è così entusiasta che davvero non me la sento di deluderlo. Prima di vendere dischi e film vendeva strumenti musicali, ed è parecchio che mi consiglia un amico da cui prendere lezioni di batteria (oltre ad avermi informato che chi mi ha venduto il rullante, il charleston ed il piatto mi ha derubato, e su questo ha assolutamente ragione). Così ieri sera mi mette in mano un film che racconta la storia di un batterista di New York. Tombola! Sembra che questo film abbia vinto il Sundance, o l’Oscar, o entrambi, o ci sia arrivato vicino; il che non è naturalmente una garanzia di per sé, però può costituire un buon argomento di conversazione. Sono praticamente certo che lo acquisterò e lo guarderò, fino a che non leggo il riassunto della trama sul retro della confezione. Ora, non puoi giudicare un libro senza averlo letto, e questo vale senz’altro anche per un film senza averlo visto (a meno che non abbia sfumature di colore nel titolo), e non sto di certo giudicando il film del batterista in questo racconto, anche se in effetti poi non l’ho comperato né tanto meno visto. Anzi, quando il mio appuntamento è arrivato, ho reinfilato il dvd negli scaffali lesto come un ladro e sono uscito di soppiatto cercando di non essere notato - anche se in effetti un ladro di solito fa il contrario.
Secondo la copertina, il protagonista del film ha lo scopo nella vita di diventare il più bravo batterista del mondo. E già qui sono due universi che cozzano, il mio e quello dello sceneggiatore. Perché il mio eroe è il Drugo Lebowski, e nel mio universo mai un batterista vorrebbe essere il più bravo del cocuzzaro. Mai un musicista vorrebbe essere un fottuto virtuoso. Un giocatore di football americano vuole essere il migliore di tutti, non un musicista rock. Ecco perché ascolto la musica invece di guardare lo sport. Quando Jerry Garcia suonava il bluegrass con Dave Grisman, questo lo guardava negli occhi e gli diceva: “Jerry no, stai sbagliando, questo pezzo non si suona così” e Jerry gli rispondeva “Dave, rilassati e suona”. Perché la musica non è una questione di virtuosismo o di seguire le note giuste, è una questione di cuore e di anima.
Per tornare al nostro batterista “vorrei-essere-il-migliore”, sogna un posto nella prestigiosa orchestra jazz del prestigioso conservatorio di New York City. Il che è molto americano e sa molto di Saranno Famosi; fosse per me, io vorrei suonare con i Commitments in un garage di Dublino piuttosto che in mezzo a tizi eleganti in giacca e cravattivo. Al massimo al Ronnie Scott a Soho a Londra, di fronte al Caffé Italia.
C’è un maestro che lo mette sotto e lo fa impazzire; un deja-vu fra Full Metal Jacket e il film sulla squadra di football. Prima di un concerto importante qualcuno perde lo spartito. Lo spartito? Un batterista jazz? Charles Mingus lo spartito lo immaginava nella testa, Miles Davis suonava il pezzo con la bocca a Jimmy Cobb e poi se non era buona la prima lo era la seconda, per non perdere la freschezza. E questo trequarti si fa sanguinare le mani a furia di provare e deve seguire uno spartito? Paul McCartney neanche la sapeva scrivere la musica, però il suo batterista si chiamava Ringo Starr.
Nella scena clou il tizio deve riuscire, perché in un caso sarà lo sgabello nella prestigiosa orchestra, nell’altro sarà la disoccupazione. Beh, che ci sarebbe di male in un dignitoso posto nei Faces?
Insomma, diciamocelo, uno sceglie di fare il batterista perché è un fancazzista e se la vuole godere, viceversa fa l’università e va a lavorare nell’ospedale di medici in prima linea. Il problema con questi film (e chi li guarda) non è un fatto di cinema, ma di sesso. Se vi piace il tizio che soffre per arrivare mentre il capo lo maltratta, delle due l'una: o da bambini avete visto troppi episodi di Dolce Remy, o siete dei masochisti, e quello che vorreste davvero non è un capo che vi insegni a fare il tre quarti, ma una valchiria che vi fustighi le natiche o un culturista borchiato che vi infili un pugno da dietro. Non è il mio genere.