(2 - continua)
Capitolo 3
Passarono i giorni ma il cuoricino del Ratto Baratto non ne voleva sapere di accettare le direttive della testa e dello stomaco. E quel che era peggio è che faceva tanto chiasso da rendere introvabile la Felicità. Il ratto cercò di ritrovarla facendosi leccare pelo e baffi dalla topina corvina, e strofinando spesso il piccolo tartufo al suo. Cercò di ritrovarla moltiplicando i baratti, e si trascinava da una parte all’altra portando montagne di cose, perlopiù inutili come le foglie gialle di quell’autunno, sassolini o ali colorate di farfalle di fine stagione. Scambiò la topina a pelo lungo molto prima di quanto avrebbe immaginato, e la scambiò per pochi grani di granoturco soffiato. La marmellata della Malinconia si trasformò nella melassa della Nostalgia, mentre la Felicità, bisognava ammetterlo, era sparita del tutto, così all’improvviso come era arrivata.
Solo che adesso che il Ratto Baratto la conosceva, si accorse che era impossibile viverne senza. Era diventato svogliato, e assai poco scaltro nei baratti, ragion per cui dimagriva di giorno in giorno. Ma neanche lo stomaco se ne lamentava: sembrava proprio che a comandare tutto adesso fosse lo stupido cuore… Ecco imparata una nuova lezione: così come un giorno aveva saputo che la sensazione strana era la Felicità, oggi, senza che ancora nessuno gliene avesse mai parlato, il Ratto Baratto sapeva che la Felicità era l’Amore.
Strana cosa, l’Amore, se ti apre dei buchi così grossi in un cuore così piccino.
Passò un autunno malinconico e venne un inverno triste. Una notte in cui la luna piena illuminava a giorno i campi gelati attorno alla fattoria, il ratto scambiò un chicco di frumento un po’ ammuffito («ma in parte ancora mangiabile» , si disse, barando con se stesso, perché anche i Ratti Baratti hanno una coscienza e devono farle rapporto) con un pezzetto di pergamena (era un pezzetto bruciacchiato del bordo di una pagina di giornale, uscito dalla stufa di ghisa del fattore, ma il ratto lo chiamò proprio «pergamena») e un carboncino (proveniente dalla stessa stufa: il ratto aveva frugato fra i rifiuti nel bidone vicino alla casa).
La melassa era più densa del solito, e il ratto si sentiva come se il modo migliore per alleggerirsene fosse di metterne un po’ sulla carta.
Così cominciò a scrivere:
«Se io potessi averti,
ancora solamente una volta.
Se io potessi baciarti,
ancora solamente una volta.
Se tu potessi stringermi,
ancora solamente una volta.
Se tu potessi amarmi,
ancora solamente una volta.
Se questa fosse la tua casa,
ancora solamente una notte.
Se noi potessimo essere,
ancora solamente una vita».
Certo non era una grande poesia (i ratti non sanno cosa siano le rime) ma nonostante fosse di melassa pura si accorse che invece di alleggerirsene il cuore ora ne traboccava addirittura. Fuori, nel gelo sotto la luna, immerso nella Nostalgia, incapace di pensare ad un nuovo baratto o anche solo ad una nuova mattina, il Ratto Baratto si accorse che negli occhi gli brillavano riflessi lucenti. Erano forse le lacrime che gli colavano a rivoli dagli occhietti neri lungo il pelo grigio? No: stava nevicando, e gli nevicava addosso, e la melassa gli impediva persino di muoversi per cercarsi un riparo.
«Rimarrò qui e sarà quel che sarà» si disse il ratto.
Quando i larghi fiocchi smisero di cadere, riapparvero la luna e un cielo colmo di stelle all’inverosimile. Quella stessa luna che il Ratto Baratto si era illuso di poter ottenere con un tradimento (ormai lo chiamava così, non più un baratto), e ora sapeva invece d’aver gettato. Il ratto non era più grigio, ma bianco da tanta neve gli si era posata addosso. Scrollò il lungo muso e guardò la vallata innevata, con gli alberi così carichi da sembrare semplici mucchi di neve. Ebbe una stretta al cuore: non era la stessa notte in cui il cielo gli aveva donato la topina dorata? Alzò gli occhi alle stelle e si trovò a sospirare: «Ho sbagliato. Ero solo un povero ratto ignorante, e non sapevo distinguere altro che il pecorino dal grana». «Ma oggi so cosa ho perso: ho perso l’Amore, che mi portava la Felicità. Fa che non sia così per sempre…»
Nell’alto del cielo una stella sembrò brillare un poco più forte, poi esitare un attimo, quasi spegnersi. Alla fine scivolò una striscia luminosa, più luminosa di ogni altra stella, a solcare per una memorabile frazione di tempo la cupola della notte.
«Una Stella Cadente!»
«Già, una stella cadente» gli fece eco una voce. Era la voce della Fata dei Ratti, che all’improvviso era lì, di fronte a lui, circondata dalla pallida luce calda come di un lampione, avvolta in quel suo manto così candido da sembrare azzurro.
«…e per la seconda volta in un anno» proseguì. «Ci deve essere un motivo ben serio perché sia successo. Vediamo un po’, mio caro Ratto Baratto, dov’è la tua compagna, la topina dorata?»
Il ratto provò una sorta di nodo allo stomaco. Se fosse mai andato a scuola (ma i ratti per loro fortuna a scuola non ci vanno) la situazione gli avrebbe ricordato un’interrogazione di matematica, e si sarebbe guardato attorno in cerca della lavagna.
«La topina non c’è, Fata. L’ho barattata». I baffi gli penzolavano dal muso come fossero piccoli spaghi bagnati.
«L’hai barattata. E con che meravigliosa meraviglia hai barattato la tua compagna, Ratto Baratto?»
«Io… non… non lo ricordo, Fata».
«Hai barattato la tua Compagna, il tuo Amore e la tua Felicità, ma non ricordi neppure con cosa?»
Il ratto arricciò il muso in una smorfia di dispiacere. Le orecchie erano afflosciate come carte di caramella buttate, i baffi ormai scivolavano sulla neve, la coda era così arrotolata sotto la pancia da spuntare davanti al muso. Il Ratto Baratto era l’immagine stessa dell’avvilimento.
Era così avvilito e mogio da essere buffo. E alla Fata (che tentava di mostrare un cipiglio severo, ma era Fata e come tale piuttosto buona) scappò prima un sorriso, poi una risata sincera. Rideva e rideva, e se cercava di trattenersi (dopo tutto era una Fata, no?) scoppiava a ridere ancora più forte, mentre le lacrime le scendevano dagli occhi.
«Vai, Ratto Baratto, torna a casa nel tuo piccolo buco sotto il granaio, ché è una notte troppo fredda per bighellonare. Credo proprio che la tua topina dorata sia là ad aspettarti. E cerca di trovarti un nuovo nome».
(3 - continua)
3 commenti:
... forse per ogni considerazione bisogna attendere il finale, comunque mi stupisce molto la passività delle topine... non si affliggono, non soffrono, non cercano di riconquistarselo... ma...
femmine...
PS: mi sa che ho capito chi sei... ;-)
eh no Blue... e questa è la conferma che possiamo sentirci unici nelle azioni, nel modo di pensare, di scrivere, di essere, ma se qualcuno riesce a riconoscere qualcuno in qualcuno, ma questo qualcuno sa di non essere "quel" qualcuno... forse non siamo poi così unici...
beh comunque credo che non sia importante "essere unici", ma "essere e sentirsi unici per qualcuno" !
Attendo il finale del racconto...
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