domenica 11 novembre 2012

San Martino



La nebbia agli irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il mar;

Ma per le vie del borgo
Dal ribollir de’ tini
Va l’aspro odor de i vini
L’anime a rallegrar.

Gira su’ ceppi accesi
Lo spiedo scoppiettando:
Sta il cacciator fischiando
Su l’uscio a rimirar

Tra le rossastre nubi
Stormi d’uccelli neri,
Com’ esuli pensieri,
Nel vespero migrar.

(Giosuè Carducci)

Mia nonna abitava sulla pianura del Po, con tutta la famiglia Bottazzi. Con il nonno, di cui porto il nome, e lo zio, Giuseppe Bottazzi, non per caso omonimo del Peppone di Guareschi. Per mia nonna la parola sanmartino era sinonimo di trasloco. Perché in campagna, all’epoca della mezzadria, il contadino (che lei chiamava fittavolo) che lavorava la terra ma non la possedeva, poteva spostarsi da un podere all’altro solo aver concluso il ciclo naturale dell’anno, cioè dopo che ciò che era stato seminato l’anno precedente era stato raccolto ed utilizzato. Per molti versi il giorno di San Martino era il primo (o l’ultimo) giorno dell’anno solare. Un esempio di trasloco di San Martino è nel toccante film L’Albero degli Zoccoli dei fratelli Olmi, che si svolge per l’appunto nell’arco di un anno da un San Martino a quello successivo. Però il ricordo più vivo che ho di questa data risale alla mia infanzia, quando a noi bambini veniva somministrato un racconto che ha sempre provocato il mio stupore, se non un po’ della mia ingenua infantile indignazione. La storia che veniva raccontata a scuola o in chiesa, fino a che l’ho frequentata, era più o meno questa. C’era questo soldato romano, di nome Martino (nomen omen), che a cavallo incrocia un poveretto semiignudo che sta morendo nel freddo novembrino. A volte in alternativa Martino era un nobile, a volte già un santo, o almeno tale io dovevo figurarmelo dal momento che suppongo venisse presentato dal narratore proprio come “San” Martino. Comunque fosse, un notabile, un happy-few, un raccomandato, uno che piaceva alla dirigenza. Questo Martino vede il povero mezzo nudo (non tutto nudo che sarebbe stato sconveniente), si commuove, si cava di dosso il proprio mantello (che io a questo punto immaginavo un caldo ermellino) e con un preciso gesto di spada lo taglia in due. Metà lo consegna al povero perché si copra, metà lo tiene per sé perché comunque freddo fa freddo. Finisse qui, sarebbe un bel racconto, educativo, formativo, istruttivo. Ma qui avviene il fattaccio, uno dei tanti che avrebbe contribuito a far franare un giorno la mia fiducia nella costruzione. La povertà, il freddo, la sofferenza ci sta tutto, fa parte del modo in cui il mondo funziona. Il passo falso è questo: Dio, che è ovunque, ha visto il bel gesto di Martino, se ne commuove e lascia spuntare il sole a riscaldare un po’ la terra ed i suoi sofferenti abitanti. Non solo, a imperituro ricordo di quel gesto, da allora ogni anno all’inizio del mese di Novembre ci sarebbe stato un giorno di caldo, di sole, dalla gente chiamato l’estate di San Martino. Fine del racconto edificante, la morale è che la bontà paga e c’è un tornaconto nell’essere generoso. Ma a me i conti non tornavano neanche un po’: ma come, Dio non è neutrale, può intervenire per sedare la sofferenza e fare del bene. Ma se è così perché non ha allora fatto sbucare il sole prima dell’arrivo di Martino, per riscaldare l’ignudo e far cessare la sua pena? E già allora che c’è, perché io pensavo in grande, se è nelle sue possibilità, perché mai donare al mondo un’inverno gelido (o una canicola) quando potrebbe realizzare un’eterna primavera? La riposta l’intuivo: perché il povero non contava nulla, ma Martino era uno dei suoi, un raccomandato, un notabile, uno per cui creare regole ad-personam, uno che non gli piaceva veder soffrire.

Caino uccise Abele, Seth non sapeva perché
se i figli di Israele dovevano moltiplicarsi
perché uno dei bambini doveva morire?
Così lo chiese al Signore
e il Signore gli rispose:

"L'uomo che non significa niente per me  
meno dell’ultimo fiore di cactus
o dell’umile albero di yucca
Mi cercate nel deserto
perché pensate che io abiti li
è per questo che amo l’Umanità… 

”Signore, la peste è nel mondo
Signore, nessun uomo è libero
i templi che abbiamo costruito per Voi
sono crollati nel mare
Signore, se non vi prendete cura di noi
non potreste per favore almeno lasciarci vivere? "

E il Signore disse:

"Ho bruciato io le vostre città - quanto siete ciechi
vi ho preso i figli e voi dite quanto siamo fortunati
dovete essere del tutto pazzi per riporre la vostra fiducia in me
ecco perché amo l'Umanità
avete davvero bisogno di me
ecco perché amo l'Umanità "

(Randy Newman)

Detto questo, buon San Martino a tutti e vivano l'estate di San Martino, le nostre tradizioni ed il nostro lunario, come lo chiamava la nonna.

1 commento:

red ha detto...

Che tu creda in qualche Dio oppure no, non bisogna dimenticare che comunque noi siamo responsabili delle nostre azioni (mi pare lo chiamassero libero arbitrio).
Immagino che la morale insita nella favoletta sia proprio questa, cioè il premio per la "buona azione".
Poi questa bella storiella, come molte altre simili che hanno riempito la nostra infanzia, mi spingono a fare una considerazione: al di là del fatto che eravamo costretti, volenti o nolenti, a imparare a memoria le regolette della religione cattolica, io credo che comunque alcuni valori che ci hanno inculcato siano universali, e che di certo non ci abbiano fatto male.
Penso ad esempio al rispetto della vita altrui, ma ce ne sono molti altri.
Oggi non è più così.
Non sono proprio sicurissimo che questa innegabile conquista di libertà abbia fatto benissimo alla società (intesa proprio come insieme di persone costrette a vivere nello stesso paese)