giovedì 14 gennaio 2016

So long, David Bowie


L’8 gennaio 2016, giorno del suo sessantanovesimo compleanno, Bowie ha dato alle stampe Blackstar, un disco che ha ricevuto un'istantanea accoglienza di cui si era persa la memoria dai giorni della beatlemania. Io scrissi che per la sua carica di innovazione si trattava del primo disco del XXI secolo (nonostante fosse iniziato da ormai sedici anni) e che era un disco seminale, che auspicavo ispirasse all’emulazione qualche giovane talento. E che ero impaziente di ascoltarne il seguito, ed il seguito ancora. Invece si trattava del Gran Finale.
Due giorni dopo, con un sincronismo spiazzante (e improbabile), l’artista venuto da Marte lasciava il nostro mondo, compiendo il percorso artistico prefigurato da Ziggy Stardust e dall’uomo che cadde sulla terra. Il rise and fall di David Bowie, un cerchio completo se si chiude fra Space Oddity e Blackstar, la stessa canzone dopo un raggio di dieci lustri.
Una uscita di scena senza precedenti, che piega alla sua teatralità persino la morte. L’arte applicata alla vita fino alla morte.
Il clamore scatenato dal nuovo disco divenne un tutt’uno con l’ondata di lutto collettivo di due o tre generazioni di ex ragazzi, mano a mano che increduli ne apprendevano la notizia. Un senso di appartenenza collettivo che non si provava dal giorno della morte di John Lennon.

Per chi era un teenager negli anni settanta, nessun artista è stato intimamente specchio del proprio intimo quanto David Bowie. Io ne ho scritto la mia testimonianza nel libro Perché non lo facciamo sulla strada?

In epitaffio a Bowie, anticipo su BEAT il capitolo a lui dedicato sull'ancora inedito Long Playing, una storia del Rock, lato B: il ritorno del Rock. Il libro è in uscita in qualche momento di questo 2016.


domenica 10 gennaio 2016

I Dieci Comandamenti: il Primo


I Dieci Comandamenti hanno un grande incipit: “Non avrai altro Dio all’infuori di me”. Grande come il ta ta ta ta della V Sinfonia di Ludwig Van Beethoven: non c’è un crescendo, si parte direttamente dal bis. Da come ce l’hanno venduto nelle ore di dottrina, questo comandamento dovrebbe significare che esiste un solo Dio. Non a caso nella Chiesa Cattolica il comandamento è stato esemplificato dal Credo, che recita: “Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili”. Ma a leggerne le parole, il “Primo” ci racconta proprio il contrario, e “Non avrai altro Dio” lo dichiara con chiarezza: lascia perdere gli altri dei, non adorarli ma adora me.
In un regime di monopolio il primo comandamento non avrebbe senso di esistere. E così interpretato è molto più aderente alla realtà dei fatti. Un Dio che ha creato l’uomo a propria immagine e somiglianza lo avrebbe di certo messo al centro dell’Universo: l’universo medioevale, con la terra al centro, le stelle fisse ed il sole che gli gira attorno. Bene faceva la Chiesa a difenderne l’idea da eretici come il Galilei, perché se già in un universo eliocentrico la centralità umana viene intaccata, che ne resta in uno in cui il Sole stesso è un minuscolo granello periferico di polvere in una galassia minore spersa in quello che potrebbe rivelarsi uno degli infiniti universi possibili? L’immagine e la somiglianza perderebbero decisamente peso.
Invece ecco che Dio non è tutti gli dei, ma il nostro dio, la divinità di coloro che gli assomigliano e che vivono qui, ovunque il “qui” possa essere. Gli altri mondi possono tranquillamente avere i propri dei, compresi Marte e Alpha Centauri, non è più la nostra giurisdizione, perché noi riconosciamo e rispettiamo il nostro. Un dio che non ha problemi a dividere il mondo con Manitou, né con gli dei degli Indù, dei Buddisti, dei Taoisti, dei Marxisti e dei Pagani. Ognuno ha il suo, degno di rispetto. Ma questo è il Dio dei Dieci Comandamenti. Un Dio anche meno arrogante di uno che pretenda l’unicità, più umano: a sua immagine e somiglianza, appunto.
La complicazione insorge con quello a cui il primo comandamento non fa cenno. Prosegue infatti il Credo: “…credo in un solo Signore Gesù Cristo, unigenito figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”. 
Quest’idea della Trinità rappresenta in effetti una complicazione, ma è resa inevitabile dal fatto che la religione in oggetto si chiama proprio “Cristianesimo”, prendendo cioè il nome da Cristo, il figlio di Dio, e distinguendosi con questo dalle altre religioni monoteiste che discendono dagli stessi Dieci Comandamenti, ma che cristiane non sono. Nei tempi lontani in cui si stabilivano i dogmi della religione cristiana, ha prevalso l’idea che il Cristo, che ha dato origine al Cristianesimo, non fosse un semplice profeta, ma fosse proprio Dio esso stesso. Ma poteva dunque Dio scendere in Terra, per essere niente meno che ucciso dagli stessi uomini da lui creati a sua immagine e somiglianza? Sì e no: era Dio, perché il cristianesimo è monoteista, ma il Grande Vecchio non ha lasciato vacante il suo posto in cielo per 33 anni; Gesù era figlio di Dio, un Dio raddoppiato generato e non creato. Presente già dall’inizio, prima di tutti i secoli.
Anche questa, a farci caso, è una complicazione, perché Gesù è il Redentore. Il suo ruolo sarebbe dunque stato quello di fare da redentore ad una umanità sin da prima della sua creazione. Dunque da prima del peccato originale, che perciò era stato previsto da Dio ancor prima che creasse Adamo ed Eva. Ma avrebbero potuto il primo uomo e la prima donna evitare di commettere un peccato che il loro creatore stesso aveva già previsto? E se viene a mancare il libero arbitrio, viene a mancare anche il peccato, e con esso la necessità di redenzione.
Più semplice sarebbe stato lasciare confinato Cristo al ruolo di profeta, di semplice inviato celeste, magari di Re degli Arcangeli (e per alcuni cristiani non cattolici, per esempio i Testimoni di Geova, è in effetti così). Ma evidentemente non è stato possibile negare il posto di CEO al creatore della start up, ed è comprensibile.
Di qui l’idea, difficile da comprendere ma coerente con il richiesto atto di fede, della Trinità: Dio è uno e trino. Uno è Dio, il Creatore, di cui il fedele non avrà altro. Il secondo è Cristo, che nonostante abbia apparentemente svolto un ruolo per soli 33 anni, di cui attivi forse solo 3, è Dio dall’inizio alla fine. Il terzo spigolo della Trinità è costituito, com’è noto, dallo Spirito Santo.
Ecco, lo spirito santo è stato per me un forte oggetto di scetticismo, e forse il primo elemento di dubbio fin dai tempi dello studio (ai miei tempi obbligatorio) della dottrina. Perché se il ruolo di Cristo era comunque esaltato dalla straripante forza e simpatia del personaggio, quello dello spirito santo mi pareva davvero molto limitato per la promozione che gli era toccata. In pratica mi pareva che lo spirito santo avesse svolto giusto il compito di trasportare il seme divino sulla terra. Una specie di Dio della Fertilità, nel sincretismo cristiano. In questo il contraltare di Maria, “Notre Dame”, la Dea della fertilità. Che però, vale la pena di notare, a differenza dello spirito santo non è ascesa alla divinità, e nei dogmi è rimasta un essere umano, anche a costo della contraddizione di un dio generato da un umano.
Insomma, uno dei semi che da ragazzo ha germogliato il mio agnosticismo, per non dire un franco ateismo, è stato proprio il ruolo dello spirito santo nella Trinità.
Fino a quando di recente non ho avuto un’epifania, ed ho capito di essermi sbagliato di grosso a non rendermi conto che dei tre, lo Spirito Santo non era il minore, ma addirittura il più importante. D’altra parte, “gli ultimi saranno i primi”, n’est-ce-pas?
È stato proprio il primo comandamento a mettermi sulla strada della comprensione, un giorno che un po’ a disagio in giacca e cravatta assistevo alla cresima di mia figlia nella chiesa che era stata, da bambino, anche la mia, e che come tale mi trasmetteva un po’ di quella mistica necessaria a riflettere sul sacri misteri.
Devo ammettere che questo Dio non più unico ma personale della mia interpretazione del primo comandamento mi risultava molto più vicino, e smontava molte delle obiezioni che la ragione contrappone alla divinità. Anche dal punto di vista del marketing (e non c’è dubbio che il cristianesimo sia stata una religione di grande successo), la figura di Dio è decisamente efficace. La più popolare è naturalmente quella di Gesù Cristo, la cui immagine potrebbe senza vergogna essere indossata su una t-shirt alla pari di un Che Guevara, e la cui storia è stata raccontata e romanzata in tutte le salse, dalla Via Crucis a Jesus Christ Superstar, senza mai invecchiare.
Ma anche Dio, nella sua imponente figura barbuta dai capelli bianchi e fluenti, assiso nel trono a la Charlton Heston (immagine mutuata, c’è da riconoscerlo, a Giove sull’Olimpo) ha un suo indubbio fascino.
Lo Spirito Santo invece non ha un’immagine. Non è televisivo, e non si presta ad essere trasportato in processione. Non ha un confine, non ha un ruolo ritagliato, come quello del Creatore o del Redentore. Perché lo Spirito Santo costituisce l’idea stessa di Deità: lo Spirito Santo è la Divinità. Che tutto pervade, come la Forza. La Deità che nulla osta a contenere anche le altre religioni, dal Buddismo al Taoismo, dai Pagani ai mondi extraterrestri.
Lo Spirito Santo non ha dogmi, non ha regole irrazionali e proibizioni destinate a farsi obsolete con il passare degli anni. È al di sopra delle emozioni e dei piccoli sentimenti, nulla pretende e non giudica nessuno. Non costringe ad atti di fede né a dar credito a leggende; anzi, non costringe proprio nessuno a credere. Puoi essere taoista, puoi essere ateo, puoi essere pagano venerando l’alba ed il tramonto, il mare e la montagna, il sole e la luna, ed ancora lo Spirito Santo rappresenterà tutto questo e ancora ne sarà sopra.
Lo Spirito Santo rappresenta la Deità al di sopra della nostra Umanità.

mercoledì 6 gennaio 2016

Oroscopo dell'anno nuovo


Vi rendete conto che la gente crede ai segni zodiacali? Che probabilmente voi stessi che state leggendo, pensate “non credo negli oroscopi, ma un po’ nel fatto che la data di nascita influisca sulla personalità”? Che sarebbe come dire “credo a San Gennaro, ma non a Sant’Ambrogio”.
Siamo sei miliardi di persone su questo pianeta, e la quasi totalità di esse non usa la mente razionale. È, ma non cogita. La cosa sorprendente è che quando una persona, apparentemente di buon senso, esprime un’opinione del tipo “credo che il carattere dei gemelli sia differente da quello dello scorpione”, non si prende minimamente il disturbo di analizzare quello che sta dicendo. Ci crede e basta, a priori, come atto di fede.
Significa forse che le costellazioni abbiano un’influenza sulla nostra vita? Anche se le costellazioni non esistono e sono in realtà un’illusione ottica legata alla nostra poszione nello spazio? Non è questo un pensiero che sfiori il credente, per quanto colto o persino intelligente: in realtà non si pone neppure il quesito. La possibilità che siano le stelle ad avere un’influenza sulla nostra vita, non gli fa visualizzare cosa sia in effetti l’Universo e quale ruolo e dimensione abbia la Terra in esso.
Molti di voi hanno un’idea dell’Universo, ma non la applicano quando pensano ai segni zodiacali.
Che sia allora, ciclicamente, il momento dell’anno a influenzare il carattere delle persone? E in che modo? Attraverso una forza che pervade l’etere e che si modifica ciclicamente con la posizione del sole? Mese per mese; e perché non esistono segni zodiacali legati ai giorni della settimana?
Questa irrazionalità si chiama superstizione, ed in effetti è legata a motivi filogenetici, vale a dire all’istinto animale dell’uomo (ma non approfondisco in questa sede).
È il medesimo meccanismo dell'avvertire la sensazione che un gesto o un accadimento, come toccare ferro, o un gatto nero che attraversa la strada, o versare il sale, o appendere l’immagine di una santa allo specchietto retrovisore, possa influenzare il nostro futuro. Una sensazione che soddisfa in sé: non mette in moto nella mente umana il bisogno di una spiegazione e non reclama una prova. In che modo un gatto nero che attraversa “del tutto” la strada potrebbe essere di cattivo auspicio? Esiste forse una forza invisibile che tutto pervade? E Dio che ruolo avrebbe in questa forza? Il credente riesce a credere contemporaneamente a entrambe le cose, all’esistenza di Dio onnipotente e della Dea bendata (in nessun rapporto di parentela, come Babbo Natale e lo Spirito Santo), senza avvertirne la contraddizione, come se fossero su due piani diversi di realtà. Possono agire contemporaneamente come appartenessero a due film differenti. Alien vs Predator. Dio contro la Dea bendata.
In che modo la bandierina della santa ci renderebbe meno soggetti al pericolo di incidenti stradali? Porsi il quesito sul meccanismo non sfiora la mente delle persone che l'appendono allo specchietto retrovisore dell'automobile. Comprensibile fino a che si parla di persone molto semplici, che non conoscano comunque la fisica dell’elettricità: per essi è comunque altrettanto inspiegabile che premendo un interruttore si accenda una lampadina, e ne sono altrettanto indifferenti. Ma il fatto è che nulla impedisce anche ad un ingegnere di provare disagio di fronte ad un gatto nero, oppure di rispondere con naturalezza “sono dell'acquario” a chi glielo domandi.

Quando nel medioevo una cometa attraversava il cielo, per un milione di persone era un segno di sventura o magari di buona sorte. Una sola su un milione lo riconosceva come fenomeno celeste e riusciva persino a calcolarne l’orbita e prevedere la data in cui si sarebbe ripresentata nel cielo secoli più tardi. Ma questa singola persona, socialmente non contava più delle altre, anzi, probabilmente era anche in pericolo.
Siamo nel XXI secolo ma non è cambiato nulla. I quotidiani che pubblicano le notizie e le previsioni finanziarie, continuano a stampare anche gli oroscopi. E voi a ritenere di avere un segno zodiacale.

lunedì 28 dicembre 2015

Guerre Stellari


Da ragazzino mi poteva capitare di prendere in mano un albo di Superman (che all'inizio si chiamava Nembo Kid) o di Batman, per esempio su una spiaggia estiva oppure seduto sulla poltrona del barbiere (anche se lì, a dire il vero, erano altri i fumetti che con finta indifferenza si cercava di lumare). Ma nonostante il fascino di storie infarcite di kriptonite verde o multicolore, non veniva in mente a nessuno di paragonare i fumetti dei supereroi alla letteratura, o anche solo a quelli degli albi di Linus. Per questo mi infastidisce un po’ tutto il can can sollevato dalla proiezione del sequel di un film hollywoodiano di fantascienza, quasi fosse l’evento cinematografico dell’anno - e probabilmente lo è, in una società che culturalmente gravita attorno ai serial televisivi.
Con la fantascienza ho sempre avuto un rapporto ambivalente. Mentre da una parte ne sono incuriosito, dall’altra non è mai successo che un romanzo di fantascienza mi abbia soddisfatto. A parte che la letteratura di genere è una letteratura “minore” per definizione, ogni volta che mi imbarco nella sua lettura trovo che gli scritti siano sciatti e scontati e soprattutto mancanti di un senso. Per tralasciare la fantascienza cyberpunk, i cui temi disturbanti mi sembrano solleticare più che altro le pulsioni sessuali masochistiche del lettore.
What’s so wrong in peace, love and understanding?

A tredici anni mi piacevano i Robot di Asimov, e la trilogia della fondazione, ma a quell’età si è tutti un po’ nerd. Riletto, Asimov mi è sembrato più vicino alla Settimana Enigmistica che alla letteratura.
Più dei libri ho apprezzato il cinema di fantascienza, almeno quello degli anni settanta ed ottanta. Da bambino ero ipnotizzato dalla serie “Ai confini della realtà”, anche se veniva di regola trasmessa ad orari in cui mi trovavo a letto. Ed i telefilm di “Ufo Base Luna”, così cool e mod. Il cinema riesce a realizzare in modo meno banale le visioni fantascientifiche: 2001 Odissea nello spazio, Alien, Blade Runner, Guerre Stellari (l’originale con il titolo in italiano), Total Recall, ed anche minori di fascino come Predator, Stargate o Il Quinto Elemento. Persino il primo film di Star Trek, quello del 1979. Sto includendo solo i film strettamente di fantascienza, quelli con gli alieni, lasciando fuori cose come Minority Report, per esempio.
Erano splendidi i film SF classici in bianco e nero degli anni cinquanta, per la loro essenzialità ed asciuttezza, lontano dai cliché televisivi e dagli schemi prefabbricati dei film hollywoodiani contemporanei (tipo Independence Day, appesantito dal cerone degli extra di storie d’amore). Mi viene da pensare a cose come Ultimatum alla terra, oppure La cosa dall’altro mondo (ripresa benissimo anni dopo da John Carpenter). Film con un ritmo.
Il fascino di Guerre Stellari, l’originale, non stava certo nella trama (buoni contro cattivi, non ci serviva altro), ma nel quadro polveroso e usato di una fantascienza finalmente non patinata, ma popolata di cowboy malconci come Ian Solo (il vero protagonista, star in quegli anni anche di Blade Runner e Indiana Jones), Chewbecca, C1-P8 e D-3BO. Fra l’altro già visti, una decina di anni prima, in un fumetto di Bonvi e Guccini intitolato Storie dallo Spazio Profondo, in cui non mancava né l’astronave scassata, né la coppia del comandante sbruffone e del suo socio antropomorfo, e nemmeno il bar in cui sarebbero entrati, una decina di anni dopo, Luke Skywalker e Obi-One Kenobi.


martedì 15 dicembre 2015

La storia di Natale del 2015


Il mio racconto di Natale di quest’anno.

Bruno e Barbara vivono una storia d’amore. Sono felici, di quella felicità che si realizza solo nello stato di grazia della luna di miele. Una felicità fragile, che non si può comprare, che va riconosciuta e protetta con cura.
Ma Barbara è insicura, ed in cuor suo ha paura che la felicità possa non durare. Che un accidente possa intervenire a distruggere la loro storia d’amore. Barbara ha paura di perdere Bruno, perciò è gelosa, e segretamente lo controlla. Per esempio, legge di nascosto i suoi messaggi sul telefono, perché irrazionalmente non può fare a meno di temere che, anche se lui è dolce, innamorato, attento e presente, possa vedersi con qualche altra ragazza, lesta a portarglielo via.
Bruno ama Barbara ed è felice, però ha amici ed amiche. Per esempio è rimasto in rapporti di amicizia con una sua ex; quando si sentono, fa loro piacere raccontarsi l’un l’altro della propria vita.
Quando Barbara scopre un messaggio di Bruno alla ex, precipita nella gelosia. Non capisce e non tollera questa amicizia, e stressa il rapporto fino a che lei e Bruno, esausti, si separano. Barbara ha il cuore spezzato, perché il suo peggior timore si è materializzato: un incidente è giunto inatteso dallo spazio esterno (così pensa) a rubarle il suo amore.
Se Barbara avesse avuto fiducia nell’amore di Bruno, non lo avrebbe controllato, non lo avrebbe incatenato, ed oggi Barbara e Bruno sarebbero una famiglia felice. Invece oggi Barbara pubblica messaggi amari su FaceBook in cui si dimostra sempre più insicura di sé e dell’esistenza dell’amore vero.
Non riesce a realizzare che la persona che le ha portato via la felicità è lei stessa.

In un diverso scenario, Barbara non è gelosa. Non controlla Bruno, non lo soffoca, ma rispetta e accetta i suoi spazi privati, perché sa che, non condividendo due persone lo stesso vissuto e non potendo entrare l’uno nella testa dell’altro, la buona regola che due amanti devono esercitare è il rispetto e la fiducia reciproca.
Barbara e Bruno sono sposati, hanno una famiglia, di cui ora fanno parte anche due bambini: uno frequenta l’asilo, l’altra già la scuola elementare.
Un giorno a Barbara succede di prendere una cotta per un altro uomo, il padre di un compagno di asilo del figlio. Dopo anni di convivenza serena e felice con Bruno, un altro uomo che la corteggia la fa sentire di nuovo giovane e desiderabile, e risveglia in lei appetiti erotici assopiti. Quando Bruno la scopre (perché gli amanti vengono sempre scoperti), Barbara si rende conto della fatuità del proprio comportamento, e di quanto profondo sia invece il suo amore per Bruno e la propria famiglia. Ma Bruno, nonostante qualche tentativo, non riesce a dimenticare; l’orgoglio ferito lo rende geloso, e dopo qualche mese d’inferno e molte scenate lascia la famiglia.
Bruno e Barbara affrontano anni duri, di ristrettezze economiche, di rancori reciproci, mentre i figli perdono l’occasione (unica) che avevano di crescere in una famiglia unita. Alla fine Bruno e Barbara si ritrovano invecchiati e delusi da una vita che non li ha ripagati delle proprie speranze.

Nella dimensione parallela, Bruno è invece riuscito a dare fiducia a Barbara, ed a perdonarla, riscoprendo il loro amore. Vent’anni di vita assieme più tardi, quando i figli lasciano la famiglia per vivere la propria vita, sono ancora assieme, per vivere una terza età serena e complice.

La lotta, spesso coronata dalla sconfitta, fra l’intelligenza e la bestia. Che a voler ferire, si fa del male da sé. Perché dovete essere gelosi come babbuini, o imbecilli?


domenica 29 novembre 2015

il film americano del batterista


Dunque, ieri sera (era sabato sera e siccome siamo in novembre, quasi dicembre, era già buio come se fosse notte, anche se i negozi sono ancora aperti), vedo la vetrina illuminata del negozio di dischi e penso che sia piacevole entrare per un saluto agli amici. Non era il sabato sera sfigato di un sabato sfigato: ho avuto i miei momenti sfigati, ma per fortuna invecchio bene come un vino toscano, e i miei sabati stanno andando a gonfie vele. Me ne tornavo da una splendida giornata in giro per una Modena prenatalizia (ed il centro di Modena prima di Natale è una meraviglia), mi ero fatto un bel po’ di autostrada con un’auto che gira rotonda che è un piacere, ed ero solo stanco e desideroso di godermi una serata di riposo sotto il piumone. Ma non sarebbe stato piacevole addormentarmi guardando un bel film, di quelli che ti riscaldano il cuore? Anche se purtroppo film buoni non ne girano più da un pezzo. Non sono mai stato uno da “andiamo al cinema a passare una serata in compagnia” ma uno da “andiamo a vedere un film”. C’è differenza: è come “facciamo una tavolata per stare assieme”, oppure “andiamo al ristorante a mangiare bene”. Si va al cinema per passare il tempo, e giusto per caso sullo schermo proiettano qualcosa; invece si va a vedere un film per vedere il film. Da giovane volevo fare il regista. Ho  passato almeno dieci anni della mia infanzia a vedermi puntualmente un film al cinema ogni domenica; a sei anni con il nonno, a 13 con gli amici. Poi il lunedì, a scuola, durante l’ora di religione, raccontavo il film ai compagni. Lo raccontavo veramente, con gli alunni seduti a semicerchio attorno a me a bocca aperta in fondo all’aula. C’era chi sosteneva che fosse meglio ascoltare il film che vederlo al cinema. Poi il regista non l’ho fatto, ed il mondo ha di certo perso qualche cosa, ma insomma.
Questo per dire che il cinema per me è una specie di fatto religioso. Non riesco a vedere un film che non è bello, o meglio, non riesco a vedere un film che non mi piace. Esco a metà. Sai quanti amici si sono incazzati, quando fra il primo ed il secondo tempo annunciavo che sarei uscito dalla sala? Ma per me era importante, era come informare il regista che il suo film era una cagata. Se un film non mi piace, non c’è verso che io ne guardi il finale; sarebbe un’atto di viltà, sarebbe una resa della mia integrità nei confronti di questo entertainment di stampo televisivo.
Così il sabato sera entro nel negozio di dischi dei miei amici, con la vetrina illuminata che nella serata buia e gelida promette se non un nirvana almeno una dose di calore umano. Parlo di un negozio che esiste dai tempi buoni, dai giorni di gloria dei dischi e della musica rock. Dai giorni in cui le copertine avevano un profumo, e da prima che i film si potessero acquistare. Di questi tempi che i negozi di dischi non esistono più neanche a Londra e NYC, ogni volta che ne varco la soglia mi prende il sospetto che in realtà il negozio sia la copertura di qualche cosa di più remunerativo; non voglio insinuare il meretricio o lo spaccio di stupefacenti e neanche il gioco d’azzardo; penso a qualche cosa come la sede di una cellula del KGB. Tutte le volte mi stupisco invece di trovarlo ben pieno di cienti, con le persone in coda alla cassa con un CD in mano, a dispetto dell’esistenza di Spotify, o con un DVD, a dispetto di Sky. Un’umanità variegata, di cui i miei amici per assicurarsi la fama invece di vendere dischi dovrebbero scrivere la cronaca. Dunque entro, in attesa dell’arrivo di un appuntamento, con la vaga speranza di trovarmi per le mani un film che mi sorprenda, ma con la certezza che non succederà. Tutti i film che mi piacciono li hanno girati negli anni settanta, quando le telecamere era fisse e le sceneggiature erano la parte più importante. Quando le macchine americane nei film erano americane e non asiatiche. Gli ultimi film buoni che sono stati girati si intitolano Pulp Fiction (quando ancora io passeggiavo abbracciato con il primo amore), Eyes Wide Shut (quando ancora non mi ero mai sposato), e Tenebaum (e li in effetti era già il nuovo millenio). The Royal Tenebaum, un capolavoro, l’unico film di Wes Anderson che vale la pena di vedere e rivedere, perché gli altri sono solo dei tentativo zuccherosi di rifarlo, e perché dovresti guardare una copia mal riuscita se hai in mano l’originale?
Così butto l’occhio alle solite copertine, e mi fermo a leggere il retro dei soliti DVD, quelli di Woody Allen, di Almodovar o chessò io, domandandomi per esempio se valesse la pena di guardare Magic In The Moonlight. Anche se ultimamente sono diventato un cattivo cliente, i miei amici del negozio di dischi sono davvero gentili, e ce n’è sempre qualcuno che spreca il suo tempo con un consiglio. Veramente il socio mio coetaneo ci ha rinunciato, credo perché si sia offeso che gli abbia stroncato alcuni dei suoi film francesi preferiti. Da quando lo conosco va tutti gli anni a Cannes per il festival, il che lo rende suscettibile in fatto di pareri cinematografici. Il problema è che in realtà lui è eccitato dai film feticisti, che non sono davvero il mio genere. Ad un paio di calze autoreggenti ho sempre preferito una ragazza del tutto nuda. Però il socio giovane è davvero un entusiasta, ed è assolutamente certo che se gli dessi retta mi godrei un sacco di film che ignoro. Il problema con lui è che tutti i film che gli piacciono hanno dentro una pistola, un mitra, qualche rapinatore in giacca e cravatta e capigliatura alla moda, ed una macchina da presa che saltella. A me piacciono le riprese statiche, e non ne fanno più dall’arrivo di MTV. Però è così entusiasta che davvero non me la sento di deluderlo. Prima di vendere dischi e film vendeva strumenti musicali, ed è parecchio che mi consiglia un amico da cui prendere lezioni di batteria (oltre ad avermi informato che chi mi ha venduto il rullante, il charleston ed il piatto mi ha derubato, e su questo ha assolutamente ragione). Così ieri sera mi mette in mano un film che racconta la storia di un batterista di New York. Tombola! Sembra che questo film abbia vinto il Sundance, o l’Oscar, o entrambi, o ci sia arrivato vicino; il che non è naturalmente una garanzia di per sé, però può costituire un buon argomento di conversazione. Sono praticamente certo che lo acquisterò e lo guarderò, fino a che non leggo il riassunto della trama sul retro della confezione. Ora, non puoi giudicare un libro senza averlo letto, e questo vale senz’altro anche per un film senza averlo visto (a meno che non abbia sfumature di colore nel titolo), e non sto di certo giudicando il film del batterista in questo racconto, anche se in effetti poi non l’ho comperato né tanto meno visto. Anzi, quando il mio appuntamento è arrivato, ho reinfilato il dvd negli scaffali lesto come un ladro e sono uscito di soppiatto cercando di non essere notato - anche se in effetti un ladro di solito fa il contrario.
Secondo la copertina, il protagonista del film ha lo scopo nella vita di diventare il più bravo batterista del mondo. E già qui sono due universi che cozzano, il mio e quello dello sceneggiatore. Perché il mio eroe è il Drugo Lebowski, e nel mio universo mai un batterista vorrebbe essere il più bravo del cocuzzaro. Mai un musicista vorrebbe essere un fottuto virtuoso. Un giocatore di football americano vuole essere il migliore di tutti, non un musicista rock. Ecco perché ascolto la musica invece di guardare lo sport. Quando Jerry Garcia suonava il bluegrass con Dave Grisman, questo lo guardava negli occhi e gli diceva: “Jerry no, stai sbagliando, questo pezzo non si suona così” e Jerry gli rispondeva “Dave, rilassati e suona”. Perché la musica non è una questione di virtuosismo o di seguire le note giuste, è una questione di cuore e di anima.
Per tornare al nostro batterista “vorrei-essere-il-migliore”, sogna un posto nella prestigiosa orchestra jazz del prestigioso conservatorio di New York City. Il che è molto americano e sa molto di Saranno Famosi; fosse per me, io vorrei suonare con i Commitments in un garage di Dublino piuttosto che in mezzo a tizi eleganti in giacca e cravattivo. Al massimo al Ronnie Scott a Soho a Londra, di fronte al Caffé Italia.
C’è un maestro che lo mette sotto e lo fa impazzire; un deja-vu fra Full Metal Jacket e il film sulla squadra di football. Prima di un concerto importante qualcuno perde lo spartito. Lo spartito? Un batterista jazz? Charles Mingus lo spartito lo immaginava nella testa, Miles Davis suonava il pezzo con la bocca a Jimmy Cobb e poi se non era buona la prima lo era la seconda, per non perdere la freschezza. E questo trequarti si fa sanguinare le mani a furia di provare e deve seguire uno spartito? Paul McCartney neanche la sapeva scrivere la musica, però il suo batterista si chiamava Ringo Starr.
Nella scena clou il tizio deve riuscire, perché in un caso sarà lo sgabello nella prestigiosa orchestra, nell’altro sarà la disoccupazione. Beh, che ci sarebbe di male in un dignitoso posto nei Faces?
Insomma, diciamocelo, uno sceglie di fare il batterista perché è un fancazzista e se la vuole godere, viceversa fa l’università e va a lavorare nell’ospedale di medici in prima linea. Il problema con questi film (e chi li guarda) non è un fatto di cinema, ma di sesso. Se vi piace il tizio che soffre per arrivare mentre il capo lo maltratta, delle due l'una: o da bambini avete visto troppi episodi di Dolce Remy, o siete dei masochisti, e quello che vorreste davvero non è un capo che vi insegni a fare il tre quarti, ma una valchiria che vi fustighi le natiche o un culturista borchiato che vi infili un pugno da dietro. Non è il mio genere.

mercoledì 19 agosto 2015

Chi beve birra campa cent’anni


La birra è una delle bevande alcoliche più antiche al mondo, ottenuta dalla fermentazione con lieviti di amidi (tipicamente orzo più o meno tostato) e resa amara dall’aggiunta del luppolo.
Quando ero bambino, di birra in Italia se ne beveva poca. È abbastanza comprensibile, se si considera che il nostro è uno dei paesi più tipicamente produttori di vino. Ho dei vaghi ricordi della birra Moretti, una delle più diffuse, che probabilmente fu la prima birra che assaggiai e mi parve amarissima; così come dello slogan “chi beve birra campa cent’anni” e della pubblicità della bionda birra Peroni.
La birra era un bere di turisti tedeschi, anche se io la “scoprii” nei miei viaggi in Inghilterra da adolescente.
Paradossalmente per conquistare il nostro paese, la birra ha utilizzato come cavallo di Troia uno dei simboli dell’Italia culinaria, la pizza.
Oggi anche da noi è quasi altrettanto celebrata del vino, se com’è vero alla festa degli Alpini (storicamente forti bevitori di vino e grappe) si beve ormai soprattutto birra, e se i micro birrifici indipendenti fioriscono in ogni città.
In numeri, il consumo annuo pro capite di birra in Italia è di 30 litri; in Germania il triplo, 106, in Repubblica Ceca 146, in Inghilterra 68, in Irlanda 98.

In Inghilterra la birra che si beve nei pub è servita generalmente a temperatura ambiente, tipicamente in grossi boccali, e comprende la Pale Ale, la birra chiara a bassa fermentazione e basso tasso alcolico che viene altrove chiamata Lager (che però è servita fresca). La Bitter, che è la più tipica, ambrata, amara e profumata, anche nelle varianti Mild (leggera) e Brown (o old, forte). La Stout, nera, amara, densa, poco alcolica, con una schiuma simile al cappuccino, di cui condivide anche il sapore di caffè.

In Irlanda la birra più diffusa, a partire dalla colazione, è la Stout, che comprende marchi famosi come Guiness e Murphy’s. Segue la birra rossa, l’ottima Smithwicks, cremosa e dal sapore di caramello, nota in Europa come Kilkenny. Infine le lager chiare beverine.

In Germania la birra tipica è la Pils, o Pilsner (che è sempre una lager), chiara e leggera, servita molto fredda in bicchieri alti e sottili, che ne contengono una piccola quantità per evitare che si riscaldi. Il cameriere ne porta un nuovo bicchiere in automatico ogni volta che questo viene vuotato, fino a che non chiediamo esplicitamente di smettere. Ogni città ha la sua produzione di pils, e chiederne una diversa può costarci l'attenzione del buttafuori.
Le Weiss (bianche) sono birre di frumento, opalescenti, acidule, fruttate al sapore di coriandolo e arancia.

In Belgio sono rinomati produttori di fumetti e di birre.
Le più celebrate sono le Ale, ad alta fermentazione, fruttate, speziate, acidule e ad alta gradazione, come le trappiste, le birre dei monasteri. Le Blanche sono l’equivalente delle weiss.
Le Lambic, dalle parti di Bruxelles, sono a fermentazione spontanea con lieviti selvaggi, spesso con l’aggiunta di succo di frutta (nella Krieg ciliegie).

In Spagna la birra si chiama cerveza, e tutti abbiamo assaggiato in bottigliette gelate la Estrella Dorada e la San Miguel, che sono ottime pils.

In USA la birra prende il posto dell’acqua minerale, che è consumata poco e costa molto di più. Le birre industriali che si dividono il mercato sono due: la Budweiser (in Europa Bud, slogan: “King of Beer”) e la più dolciastra Miller (slogan: “The High Life”). Si bevono gelate ed in quantità, e proprio perché sostituiscono l’acqua se ne consuma anche la versione leggerissima, la Bud Light.

La birra messicana che ha conquistato il mondo è la Corona Extra, leggera e di colore dorato, che non fa schiuma, va bevuta obbligatoriamente gelata e dalla bottiglia, magari con uno spicchio di limone o lime sul suo collo (per tenere lontane le mosche).

La miscela di birra pils e di gazosa / lemonsoda forma una bibita chiamata Panaché in Francia (due terzi di birra) e Radler in Germania (metà e metà).

martedì 14 luglio 2015

Time

(Nick Cave)

Ai (bei) tempi dell’Università, a Parma, mi capitava spesso di pranzare fuori con mio fratello. Lui ordinava sempre lo stesso piatto: era certo della riuscita, e ne era sempre soddisfatto. Io ero consapevole del fatto che sarebbe stata la scelta migliore, ma andava sempre a finire che la curiosità mi trascinava ad ordinare qualche cosa di diverso. Un piatto che non avevo ancora assaggiato, un nome che mi attirava, una curiosità da soddisfare. Quasi sempre lui mangiava meglio di me, eppure non potevo fare a meno di continuare a cambiare.
Quello che allora non sapevo è che quella sarebbe stata la metafora delle nostre vite.
Persino la strada fra casa ed il lavoro non riesco a tenerla costante: l’idea di ripetere all’infinito il già vissuto mi soffoca, e così va a finire che certi giorni faccio il doppio dei chilometri solo per cambiare, per prendere un diverso tragitto, per essere in un posto diverso.
A questa cosa pensavo oggi, quando sul social network ho trovato la pagina di un vecchio e caro amico, uno con cui ho vissuto e con cui sono stato, come si dice, culo e camicia, ma che di questi giorni non vedo più. Sai com’è, quando ti rivedi: uno sfacelo. Invece no: lui è bello, con un’aria addirittura intellettuale, sorridente in tutte le foto, circondato dalla famiglia. La moglie è la stessa che ai tempi era la sua fidanzata; ingrigita ma pure bella e sorridente. Ed i post, neanche uno dei deliri tipici di facebook, ma un piccolo mondo antico fatto di provincia nel senso più romantico e nostalgico del termine; vita sociale, partecipazione, amore per il proprio territorio. Una delle vite che avrei voluto vivere.
E intanto pensavo, ho avuto tanto amore, e tanti amori lasciati indietro, tante curve, tanti cambiamenti, la voglia di assaggiare tutto e forse un poco di rimpianto di aver sempre mollato tutto. Ho scelto una strada che forse non era la mia, per mancanza di coraggio ma anche perché all’epoca sembrava (ed era) decisamente più bella di quello che è diventata di questi giorni deludenti. Ho sognato tanti sogni, che si sono realizzati solo a spizzichi e bocconi, ho percorso tante strade, che pure ancora mi sembrano decisamente troppo poche rispetto alle infinite strade del mondo. Non ho vissuto nel paese alla Piero Chiara che le mie radici avrebbero voluto, ma neanche ho fatto il giro del mondo. Ho vissuto come ho potuto e non ho mai smesso di desiderare l’orizzonte. Forse ho preso più amore di quello che ho dato, e di questo immagino dovrò rispondere alla fine al mastro di chiavi.
L’unico rimpianto vero è di non aver abbastanza vita. Tante cose da fare ed una vita così breve. Come diceva Lorusso, ogni volta che vedo un tramonto mi girano le balle. Perché è passato un altro giorno.