domenica 15 marzo 2015
Puerto Escondido
Vedere il film di un libro è sempre un problema. Lo stesso problema è leggere il libro di un film così fondamentale. Puerto Escondido è stato l’ultimo di quella straordinaria sequenza di film di Salvatores & compagni che per la mia generazione hanno assunto lo status di cult. Trilogia della fuga, sono stati definiti, anche se i film in effetti sono quattro; ma lo trovo corretto, perché la trilogia della fuga per me è costituita da Marrakech Express, Mediterraneo e Puerto Escondido, mentre Turné in realtà è un film sull’amore e l’amicizia. Dopo Puerto Escondido, anno 1992 (ventitré anni fa, non so se mi rendo conto di quello che dico) non mi pare che nessun film italiano abbia più avuto lo stesso peso per la generazione Beat.
Quando siamo andati al cinema a vedere il film, il libro di Pino Cacucci non lo aveva praticamente letto nessuno. Ed anche dopo non è diventato un best seller.
Cacucci è un tipo particolare. Classe ’55, ligure di adozione ed anche un po’ bolognese, è in realtà più messicano che italiano, sia di cuore che di viso. A proposito di fuga, Cacucci è un fuggitivo, che in Italia non aveva messo radici, e che ha trovato in Messico una inusuale terra promessa. Di lui va letto senz'altro La Polvere del Messico, per come riesce a contagiare il lettore con la sua passione verso un paese che in realtà di noi italiani non aveva mai attirato nessuno, sin dai tempi di Zorro e degli spaghetti western. Insomma: chi voleva essere il messicano?
All’epoca Diego Abatantuono ha letto il libro di Cacucci (Puerto Escondido, non la polvere del Messico), lo ha portato a Salvatores e, zac, è nata l’idea del seguito di Mediterraneo. Ma la Mondadori, la casa editrice di Cacucci, non ha spinto il libro e nemmeno l’ha più ristampato, per cui è diventato l’unico dei suoi romanzi a diventare introvabile. Oggi, che è stato stampato di nuovo da Feltrinelli, l’ho finalmente letto anch’io. Con, ça va sans dire, grandi aspettative. Pensavo naturalmente di avere fra le mani un potenziale libro di culto, e di rivivere le vicende del film. È il problema dei film tratti dai libri: non c’è verso di essere imparziali.
Perché il racconto del libro, ho scoperto, non è quello del film. Il film è stato generato dall’idea del libro, ma il racconto è tutt’altro. Ed i personaggi sono altri. Nel libro non ci sono i personaggi del film. Non c’è Mario, non ci sono Alex, Anita e il commissario Viola. Non c’è neppure il gallo. Il protagonista del film è un milanese perfettamente integrato, imbruttito diremmo oggi, che il destino porta di violenza in un mondo che non è suo, ed in cui non vuole integrarsi. Quello del libro è facile immaginarlo, è il Pino stesso, straniero in patria, che trova la terra promessa in Messico. La storia è diversa, la trama è diversa, il senso è diverso. E quanto la storia del film era agile e scattava con un meccanismo ad orologeria a la Pulp Fiction (un gran lavoro di sceneggiatura), tanto il racconto di Cacucci è un giallo complesso e complicato, pieno di tornanti, come tipico dei suoi romanzi, che qualcuno ama, ed altri trovano eccessivi. C’è persino una intera parte decisamente fuori tema, quella a Barcellona, che è facile immaginare come un diario personale dello stesso autore, una specie di prova generale de La Polvere del Messico, ma senza la stessa riuscita.
Non un brutto libro, anzi. Tutt’altro. Ma, non per colpa sua: eretico. Io mi sono fermato a pagina 333 (su 398). Perché quando il protagonista chiede a tre tizi e non al commissario Viola di aiutarlo nell’impresa di salvare l’amico arrestato dalla polizia messicana, ecco, io lì non ce l’ho fatta a proseguire. Era chiedermi troppo.
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