Jack Kerouac. Sulla Strada. È il titolo sulla copertina di una pila di Oscar Mondadori che fronteggia su uno scaffale del centro commerciale dove mi sono rifugiato in cerca di aria condizionata e di fast food. Anche se la copertina non è più la stessa, e persino l'editore, è un titolo che mi porta lontano.
Non solo perché On The Road è la bibbia di una generazione che quando Jack Kerouac scriveva queste pagine autobiografiche negli anni cinquanta era ancora da venire: la generazione rock, il '68, il movimento hippie, tutti noi "venuti dopo", diversi dai nostri padri.
Non solo perché la copertina riporta l'annotazione "con un saggio di Fernanda Pivano", quanto mai attuale nei giorni della sua scomparsa.
Ma soprattutto perché mi riporta ai giorni in cui lo lessi, nel lontano 1976, nelle giornate calde in cui preparavo, o meglio dovrei dire "avrei dovuto preparare", l'esame di maturità. Un esame così poco sentito che invece di mandare a memoria testi di fisica e matematica leggevo senza fretta le pagine di una vecchia edizione di questo libro con una copertina verde, più perché già allora fosse un mito che per convinzione. All'esame uscii malamente, e devo probabilmente la mia promozione solo alla mia buona conoscenza della lingua inglese, ma non passarono che poche ore dalla pubblicazione dei voti nella bacheca del Liceo che già mi trovavo io stesso "on the road" su una spaziosa vecchia Peugeot bianca per un mio viaggio iniziatico attraverso la Francia, dove mi sentii molto boehemienne a dormire in un sacco a pelo sui marciapiedi di Parigi e a passeggiare per Montmatre (ma ricordo che la prima sera finii in un cinema a vedere Histoire d'O con Corinne Clery, da noi censurato), e attraverso lo stretto della Manica fino all'East di Londra, dove mi recai in pellegrinaggio alla ricerca del primo negozietto della Virgin Records, che allora era un'etichetta di rock d'avanguardia in procinto di firmare un contratto ai Sex Pistols.
Viaggiavamo io e un amico con una tenda ed un grosso zaino militare comprato ad un mercatino, in cui feci compiere tutto il viaggio con me alla mia copia del libro di Kerouac. A Londra abbandonammo l'idiota proprietario della Peugeot, raggiungemmo la Cornovaglia e l'East End (la fine estrema del mondo prima dell'Oceano), baciai una ragazza così graziosa che in seguito ebbe l'onore di fare la modella sulla copertina di una rivista (no, non Playboy) e tornammo carichi di dischi in treno. Ricordo anzi che invece di arrivare a casa decisi di scendere, notte tempo, in un paesino della Val di Susa...
Così oggi sto rileggendo Sulla Strada. Non l'avevo più fatto da allora. Devo confessare che non ricordo praticamente nulla, nemmeno quanto fosse straordinariamente coinvolgente. Anche perché quando lo leggevo allora i nomi degli stati e delle città da NYC a San Francisco non mi dicevano nulla, mentre oggi li ho visti praticamente quasi tutti. Ma la cosa che più mi ha sorpreso è che molte cose che leggo in quelle pagine pensavo di averle pensate io. Per esempio, quante volte mi è capitato di raccontare "ho dormito così profondamente che al risveglio non riuscivo neppure a ricordare chi fossi... e quando mi è venuto in mente ci sono restato male".
Beh, Jack scrive: "mi svegliai che il sole stava diventando rosso; e quello fu l'unico preciso istante della mia vita, il più assurdo, in cui dimenticai chi ero - lontano da casa, stanco e stordito per il viaggio, in una povera stanza d'albergo che non avevo mai visto, colsibilo del vapore fuori - e guardai il soffitto alto e screpolato e davvero non riuscii a ricordare chi ero per almeno quindici assurdi secondi".
È la stessa sensazione che ha provato mia moglie quando, vedendo per la prima volta Marrakech Express, si accorse che metà delle frasi che ripeto non sono mie ma di quel film. E spero che non legga On The Road, per scoprire che anche l'altra metà non è mia...