mercoledì 8 aprile 2015

il tempo


«Beato te che non capisci niente».
Vero. Il mondo è dei semplici, di chi si fa poche domande e si da ancora meno risposte. C’è qualche cosa nell’intelligenza che arriva ai confini del lecito, e che l’evoluzione stessa deve tenere a freno. L’idiota non lo ammazzi, lui sa tutto quello che deve sapere e non perde il tempo a masturbarsi la mente sulle cose che non lo riguardano e soprattutto che non lo aiuteranno a stare meglio.
Passava una cometa. Cinquanta milioni di uomini pensano alla sfortuna, al fato, agli dei. Uno la riconosce come un fenomeno celeste, ne calcola l’orbita e ne predice persino il ritorno qualche secolo dopo, quando nessuno dei presenti sarà vivo a vederla. Chi sta meglio? Immagino l'uomo con addosso una tonaca, e che ha visto (e mostrato) nell’evento un segno del potere del dio che rappresenta. Perché a pensare, non arrivi da nessuna parte. Ogni risposta che trovi contiene due nuove domande. Perché il nostro orizzonte delle conoscenze è limitato, e troppo ce n’è, oltre (ed oltre, ed oltre). Mentre noi siamo piccoli così. Prendi il tempo, per esempio. Non puoi fartene una ragione del tempo, non puoi comprenderlo: è troppo fuori dalla nostra esperienza. È infinito il tempo? Dura per sempre, e prosegue sempre nella medesima direzione? Se il tempo fosse infinito, questo preciso istante lo dividerebbe a metà. Due metà di infinito che, la matematica ci insegna, sono altrettanti infiniti. Anche il mezzo tempo prima di questo istante sarebbe infinito. Ma se così fosse, se prima di questo istante ci fosse un infinità di tempo, questo istante non sarebbe mai arrivato, perché ci sarebbe sempre un tempo infinito prima di adesso.
Sarebbe dunque il tempo finito?
Sferico magari, come la superficie di un pianeta o di una stella, per citare i corpi celesti più tipici dell’Universo? E su questa sfera noi non saremmo più che fuscelli, trasportati dalla corrente di un insignificante ruscello, per l’attimo minuscolo della nostra vita? E poi?
Come dice Woody Allen: «Non ho niente contro la morte, è solo che si muore per troppo tempo». Come si può concepire di esistere per un tratto minuscolo di tempo, per poi scomparire per sempre. Sempre sempre. O per dirla meglio: non tornare mai più? Inconcepibile. Per forza le persone devono crearsi un aldilà, ed un Dio. Si muore in questa valle di lacrime, ma solo per tornare nel più desiderabile dei villaggi vacanza. Tutto gratis, felicità per sempre. Sempre: di nuovo il tempo.
Ti svegli, San Pietro ti da il benvenuto, e ti ritrovi in un mondo di perfetta beatitudine. In Paradiso non sei né bello né brutto, né figo né storpio, né intelligente né idiota, sei pura essenza, pura anima, assolutamente felice, come sotto eroina. Per sempre.
Non avrai rancore, e neanche amore specifico. Non per la moglie che hai amato, ma che dopo la tua morte si è risposata e si trova qui in Paradiso con il secondo marito. Non per la donna che non ti ha voluto, e che anche in Paradiso ha di meglio da fare. Neanche rancore per Adolfo Hitler, o per il tuo assassino. Perfettamente felice, e basta. Assolutamente felice per dieci giorni, anche se non c’è nulla da fare. Perfettamente beato. Per dieci anni. Per dieci decadi. Per dieci secoli. Per dieci millenni… Comincia a farsi lunga. Ed è solo l’inizio dell’infinità del tempo. E dopo 100000000000000000000000000 infinità, è ancora solo l’inizio. No, non può essere così, troppo noioso per qualsiasi standard.
Forse non sarà dunque il Paradiso. Forse sarà il ciclo delle eterne rinascite. Quante rinascite? Perché fra 4 miliardi di anni non ci sarà più una Terra su cui rinascere, perché sarà stata incenerita dal Sole. Si potrebbe sempre rinascere da un’altre parte. Fino che, ad un certo punto, non esisterà più neanche un Universo. Ma nessuno ha in effetti sostenuto che il ciclo delle rinascite sarà senza fine. Ad un certo punto, a furia di vivere ci saremo abbastanza purificati da sublimarci, innalzarci e fonderci nel Nirvana, perdendo la nostra limitata individualità per fonderci nel Tutto. Dove il tempo, finalmente, non esiste. E che in vita non possiamo neppure provare a concepire. Ed allora, perché perdere tempo a calcolare il moto delle comete, quando possiamo ubriacarci, accoppiarci, amarci, ed ascoltare il rock’n’roll?

domenica 15 marzo 2015

Puerto Escondido


Vedere il film di un libro è sempre un problema. Lo stesso problema è leggere il libro di un film così fondamentale. Puerto Escondido è stato l’ultimo di quella straordinaria sequenza di film di Salvatores & compagni che per la mia generazione hanno assunto lo status di cult. Trilogia della fuga, sono stati definiti, anche se i film in effetti sono quattro; ma lo trovo corretto, perché la trilogia della fuga per me è costituita da Marrakech Express, Mediterraneo e Puerto Escondido, mentre Turné in realtà è un film sull’amore e l’amicizia. Dopo Puerto Escondido, anno 1992 (ventitré anni fa, non so se mi rendo conto di quello che dico) non mi pare che nessun film italiano abbia più avuto lo stesso peso per la generazione Beat.
Quando siamo andati al cinema a vedere il film, il libro di Pino Cacucci non lo aveva praticamente letto nessuno. Ed anche dopo non è diventato un best seller.
Cacucci è un tipo particolare. Classe ’55, ligure di adozione ed anche un po’ bolognese, è in realtà più messicano che italiano, sia di cuore che di viso. A proposito di fuga, Cacucci è un fuggitivo, che in Italia non aveva messo radici, e che ha trovato in Messico una inusuale terra promessa. Di lui va letto senz'altro La Polvere del Messico, per come riesce a contagiare il lettore con la sua passione verso un paese che in realtà di noi italiani non aveva mai attirato nessuno, sin dai tempi di Zorro e degli spaghetti western. Insomma: chi voleva essere il messicano?
All’epoca Diego Abatantuono ha letto il libro di Cacucci (Puerto Escondido, non la polvere del Messico), lo ha portato a Salvatores e, zac, è nata l’idea del seguito di Mediterraneo. Ma la Mondadori, la casa editrice di Cacucci, non ha spinto il libro e nemmeno l’ha più ristampato, per cui è diventato l’unico dei suoi romanzi a diventare introvabile. Oggi, che è stato stampato di nuovo da Feltrinelli, l’ho finalmente letto anch’io. Con, ça va sans dire, grandi aspettative. Pensavo naturalmente di avere fra le mani un potenziale libro di culto, e di rivivere le vicende del film. È il problema dei film tratti dai libri: non c’è verso di essere imparziali.
Perché il racconto del libro, ho scoperto, non è quello del film. Il film è stato generato dall’idea del libro, ma il racconto è tutt’altro. Ed i personaggi sono altri. Nel libro non ci sono i personaggi del film. Non c’è Mario, non ci sono Alex, Anita e il commissario Viola. Non c’è neppure il gallo. Il protagonista del film è un milanese perfettamente integrato, imbruttito diremmo oggi, che il destino porta di violenza in un mondo che non è suo, ed in cui non vuole integrarsi. Quello del libro è facile immaginarlo, è il Pino stesso, straniero in patria, che trova la terra promessa in Messico. La storia è diversa, la trama è diversa, il senso è diverso. E quanto la storia del film era agile e scattava con un meccanismo ad orologeria a la Pulp Fiction (un gran lavoro di sceneggiatura), tanto il racconto di Cacucci è un giallo complesso e complicato, pieno di tornanti, come tipico dei suoi romanzi, che qualcuno ama, ed altri trovano eccessivi. C’è persino una intera parte decisamente fuori tema, quella a Barcellona, che è facile immaginare come un diario personale dello stesso autore, una specie di prova generale de La Polvere del Messico, ma senza la stessa riuscita.
Non un brutto libro, anzi. Tutt’altro. Ma, non per colpa sua: eretico. Io mi sono fermato a pagina 333 (su 398). Perché quando il protagonista chiede a tre tizi e non al commissario Viola di aiutarlo nell’impresa di salvare l’amico arrestato dalla polizia messicana, ecco, io lì non ce l’ho fatta a proseguire. Era chiedermi troppo.

giovedì 1 gennaio 2015

La storia di Natale del 2014


Immaginate. Immaginate di essere vecchi vecchi vecchi, al capolinea della vostra vita. In un letto.
Vi guardate le mani rattrappite dall’artrosi, e non ci potete credere. Una stanza bianca, che neanche riconoscete. Avete ricordi solo di quando eravate più giovani. Ricordate di quello che avevate e di quello che oggi non avete più. L’infermiera dice che è la notte di Natale. Vi fa pensare alle notte di Natale di tanto anni prima, quando magari passeggiare nella folla vi irritava, e gli alberi e le palline non vi dicevano niente. Pensate che quello che desiderereste davvero è una macchina del tempo, che vi riporti al Natale di quando eravate più giovani, alle persone che avete perso, al posto dove vivevate. Quando eravate felici senza neanche saperlo.
Ma tornare indietro nel tempo è impossibile, si sa...
Sicuri? Chiudete gli occhi e riapriteli.
Esauditi! Buon Natale.


P.S.: ok, leggete qui la storia di Natale di BEAT 


giovedì 18 settembre 2014

stelle cadenti


Quando due persone si incontrano, sono due mondi che collidono. Ognuno con la propria storia, la propria esperienza, i sogni, le speranze, le paure, le ferite. La propria orbita.
Quando si è giovani, si brucia come una supernova: nell'impatto le due stelle possono esplodere, frantumarsi, ma a volte possono anche fondersi per diventare stelle gemelle.
Quando si è adulti fatti e finiti, è più difficile.
Si viaggia assieme per un po’ di tempo: una notte, un mese, un anno. Se l’orbita è simile o l’attrazione abbastanza forte da far orbitare un satellite attorno ad un pianeta, si può anche continuare a viaggiare assieme. Viceversa come stelle cadenti si compie uno splendido, a volta indimenticabile, tratto di cielo in coppia, ma alla fine la forza centrifuga prevale e ognuno torna sulla sua strada. Più o meno arricchiti, spesso affranti o amareggiati.
Ma la felicità (non è così?) è la strada, quella che si è percorsa assieme.

mercoledì 1 gennaio 2014

mercoledì 25 dicembre 2013

Racconto di Natale: lucido da scarpe


Da che io mi ricordi tutte le volte che mi lascia la ragazza io mi lucido le scarpe. No, non è un gesto ossessivo-compulsivo o scaramantico. Semplicemente guardo le mie scarpe, tutte quante, le metto in fila magari sul balcone, prendo la scatola dei lucidi, sempre la stessa da trent'anni, scelgo le spazzole per i vari colori, neutro, marrone, testa di moro, nero, e mi metto al lavoro. Non lo faccio di proposito. Sono lì che sto lucidando le scarpe una dopo l'altra e realizzo: è finita anche questa storia. Ecco perché mi è venuta voglia di lucidarmi le scarpe. Immagino sia come un tentativo di tenermi occupato iniziando un'opera di ricostruzione della mia vita, partendo dalle scarpe. Mi è successo una volta persino in America. Ero lì, sugli scalini di casa in un viale alberato nei giorni della Indian Summer, l'inizio dell'autunno, che gli alberi sono coperti di foglie rosse della bellezza di una poesia, e di fianco a me era seduto il suo bellissimo bambino di sei anni, felice di imparare da me come si lucidano le scarpe, quando ho realizzato che era finita anche quella storia. Per fortuna non mi capita molto spesso di dovermele lucidare, tutte quante. Ma sono piuttosto bravo a farlo. Forse ho imparato dalla Nonna Maria, che quando la andavo a trovare da ragazzo mi guardava le scarpe e mi diceva: dammele, che te le lucido. Alla fine ti ci potevi specchiare dentro. Oppure alla Scuola Allievi Ufficiali. Ti davano loro il materiale, la spazzola ed il lucido, e tu dovevi tenerti gli anfibi lucidati a specchio come in un film di Stanley Kubrick. Peccato che poi da ufficiale gli anfibi non me li abbiano fatti mettere neppure una volta.
Così questa mattina di Natale ero sul balcone, nella nebbia, a lucidarmi le scarpe. E ho capito.

martedì 24 dicembre 2013

Racconto di Natale: the making of Long Playing (una storia del rock)


Il mio racconto di Natale è su come ho scritto il libro «Long Playing una storia del Rock».
Bel racconto! direte voi, stai solo maldestramente cercando di farti pubblicità, tante grazie di niente, il racconto se non ti dispiace te lo leggi tu.
No, davvero, non sto facendomi pubblicità. Cioè, se andate a comprare il libro mi fate piacere, perché ho una certa lista di desideri da biffare, ma questo racconto non è marketing per il libro. Long Playing non l'ho scritto per avere un prodotto da vendere. L'ho scritto perché dovevo assolutamente raccontare questa storia. L'ho scritto perché è la mia testimonianza giurata. La musica Rock è stata decisiva nella mia vita e determinante nel plasmare la mia personalità. Mi ci sono perfino ribattezzato Blue sulla copertina di Blue Valentine di Tom Waits.
La storia della nostra musica, che poi è la storia dei nostri musicisti, dei generi, delle scene, delle vite di chi cantava, di chi c'era attorno e di chi ascoltava, l'ho sempre voluta scrivere. Solo che prima ne conoscevo solo un pezzetto, e poi un po' di più, ma mai l'ho saputa tutta come ora. Così l'ho scritta adesso, che la musica rock non interessa più a nessuno. Magari a scriverla negli anni novanta mi ci comperavo un Duetto Alfa Romeo usato...

(leggi tutto su BEAT

domenica 22 dicembre 2013

La macchina della tua vita


Immagina che trovi la macchina della tua vita. La macchina che hai sempre sognato e che ora il destino del tutto inaspettatamente ti mette in mano. Una fuoriserie senza uguali che non cambieresti con nulla al mondo. Che ci dormi la notte con le chiavi sotto il cuscino. Che stai per ore ad ammirarla in garage mentre la lucidi. Una macchina che tratti come mai nessuna prima. La macchina che ti rende felice.
Una volta ti si spegne per strada, ma la fai riparare e continui ad amarla. Un’altra volta ti lascia a piedi in autostrada, ma tu affronti tutti i disagi del caso e torni ad usarla. Devi iniziare a cambiare il tuo stile di guida, perché certe cose la mettono in crisi. Devi stare attento a non toccare certi pomelli, perché altrimenti si ferma. Devi imparare ad assecondare tutte le sue idiosincrasie.
Tutte le volte il meccanico ti garantisce che non succederà più, ma poi ti si ferma in alta montagna, poi al mare , poi in città…
Alla fine senza preavviso ti butta fuori strada. Che fai? La macchina che ami. La cambi.