lunedì 15 luglio 2013

Blue Motel



Ho finito il primo libro. E adesso?
Il mio iPad è disseminato di applicazioni per la scrittura, di raccoglitori di "idee", di grafiche, di outliners. Su tutte queste app ho preso nota dei nomi dei libri che avrei scritto, sempre gli stessi, ripetutamente gli stessi titoli. I libri che avevo da scrivere, le cose che avevo da dire. Da ragazzo avrei voluto diventare uno scrittore, ma era un desiderio un po' generico. Volevo diventare uno scrittore, ma non avevo un'idea precisa di cosa avrei voluto scrivere. Per esempio, quando persi il primo amore scrissi per lei La Ballata del Ratto Baratto (ma il nome del ratto l'ho copiato).
Poi ho scritto un racconto, Pretty Flamingo, ispirato dall'intensità di una canzone che ascoltavo tutti i giorni, ma non quella dei Manfred Mann, bensì la cover di Rod Stewart. Mi piaceva così tanto da metterla su una cassetta in un lettore che si accendeva ogni mattina per darmi la sveglia. Ogni mattina mi svegliavano quei colpi di batteria che introducono Pretty Flamingo. In effetti tutte le cassette che registravo iniziavano con Pretty Flamingo, e a seguire Let's Stick Together nella versione di Bryan Ferry. Non mancava mai neppure Jersey Girl di Tom Waits (mai la versione di Springsteen, che è diluita e manca del ritmo secco del r&r), e almeno un pezzo di Le Chat Bleu dei Mink DeVille. Altri brani che negli anni furono standard nelle mie compilation sono Callin' Out To Carol di Stan Ridgway, I Wanna Be With You di Chris Rea (parlando di Chris Rea, quanto sono belle The Mention Of Your Name e Tell Me There's a Heaven?), la cover di Willy DeVille di Could You Would You dei Them, Have I Told You Lately That I Love You di Van Morrison, Bad Time dei Jayhawks, Two Hearts di Chris Isaak (a rotazione con la sua cover di Solitary Man di Neil Diamond), Only The Lonely di Roy Orbison.
In Pretty Flamingo, il racconto, non c'erano dialoghi, perché i dialoghi non li so scrivere. Lo spedii a qualche rivista glamour, me la pubblicò Subway, numero speciale estivo. Poi basta, non ne scrissi altri, racconti. Qualcuno ha detto che non hai niente da dire prima dei cinquant'anni. Adesso ho cinquant'anni ed ho in effetti un sacco di cose da dire. Ho almeno cinque libri da scrivere, già pronti con il loro titolo, e persino di più. Scrivo mentre ascolto canzoni (come in questo momento, Forever Blue di Chris Isaak), mi riempiono di emozioni come una pentola e pressione, che incanalo nelle cose che ho da dire. Da teenager pensavo di suonarle queste canzoni, prima di rendermi conto con orrore di non aver orecchio musicale, e che non sarei mai riuscito a suonare uno strumento musicale, né la Gibson Les Paul che avrei voluto, né il Fender Jazz bass che mi tenni come seconda scelta, tanto meno il sassofono. Non ho ancora del tutto rinunciato all'idea della batteria, che acquisterò quando sarò diventato ricco come scrittore famoso.
I miei scrittori preferiti erano (e ancora sono, almeno credo) gli affabulatori, Georges Simenon e Piero Chiara, e i romantici mitteleuropei, tipo Thomas Mann (La Morte a Venezia) e Arthur Schnitzler. Naturalmente leggendoli mi rendevo conto che non sarei mai stato capace di scrivere così; pensai che forse le storie degli altri avrei potuto raccontarle nei film facendo il regista, ma alla fine ero troppo borghese per osare e andò a finire che dopo la maturità mi iscrissi a Medicina. Negli anni scrissi sempre, soprattutto di musica (ma non solo), ed ebbi la fortuna di farlo al momento giusto (il 1978) sulla rivista giusta (Il Mucchio Selvaggio, il Rolling Stone italiano) ma non nel posto giusto (se già l'Italia è la periferia dell'Impero, la mia provincialissima cittadina in Val Padana è la periferia della periferia).
Fu quando mi capitò di leggere Nick Hornby che capii: questo lo so scrivere anch'io, mi dissi. Era la mia cultura, la mia generazione (stesso anno di nascita), la mia musica. Non è Alessandro Manzoni ma vende. Se l'ha fatto lui...
Allora, i titoli dei libri da scrivere, che sto scrivendo, che ho scritto, tutti assieme, in parallelo, su un'applicazione del MacBook Air che si chiama Scrivener. Perché non è che la decisione di scrivere preceda il contenuto: neanche per un attimo mi sono mai messo a pensare "cosa possa scrivere?". È il contrario: ho un sacco di cose da raccontare e devo trovare il posto giusto dove metterle, il cassetto in cui infilarle.

Per prima cosa ho scritto la storia della musica che ha segnato la mia vita ("her life was saved by rock'n'roll": Sweet Jane, Velvet Underground, Lou Reed). Il racconto della storia di quella musica. Il titolo non l'ho mai rivelato, come di tutti gli altri libri, perché pensavo che appena conosciutolo un esercito di scribacchini si sarebbe precipitato a copiarlo, a intitolare così il manoscritto nel cassetto. Lo rivelo qui per la prima volta, e se lo copiate, questo pezzo testimonia che siete degli infami. Long Playing, Side A: 1954-1976. Fossi stato inglese l'avrei intitolato The Long Play, ma in italiano LP va meglio. Esiste anche un Side B: 1977-2000, che è separato per qualche ottima ragione. Intanto perché il libro sarebbe stato troppo pesante e troppo costoso, e voi lettori non l'avreste acquistato. Invece così ne acquisterete due, un'astuzia di mio conio. Poi perché i due volumi, o meglio i due "lati", sono scritti in un timbro diverso. Il primo racconta della musica che ho scoperto a posteriori, quella che già esisteva quando ho iniziato ad acquistare dischi, i musicisti e gli album che già facevano parte della mitologia. Il secondo di quella che ho visto crescere con me, gli esordienti che scoprivo nel negozio di dischi, che si chiamassero Tom Petty, Steve Forbert, Willie Nile, Mink DeVille, Clash, Elvis Costello… Li racconto con uno stile differente, con deferenza i primi, con familiarità i secondi.

Poi c'è una raccolta di storie rock, cose vissute dal punto di vista troppo personale per far parte di una "storia" del rock. Per andare avanti ad ispirarsi a Hornby, il mio "31 canzoni". Si intitola "Perché non lo facciamo per la strada?" dal titolo del racconto conclusivo (e dalla canzone del White Album). Non è la Divina Commedia, è un raccontare leggero ma immagino significhi qualche cosa per chi ha respirato la mia stessa cultura.

Il quarto libro non racconta di musica rock, ma di motociclette.
Una filosofia pratica della motocicletta, il tentativo di svelare la filosofia che si cela dietro la passione, attraverso una raccolta di racconti di moto. Perché c'è una felicità atavica legata all'andare in moto, che suggerisce che la moto sia una creatura di Dio.

Il quinto è un annuario, o meglio, per rivelarne il titolo, un lunario, come quello che la Nonna Maria aveva appeso in cucina. Ogni capitolo è un mese, ed ogni mese è dedicato ad un tema, ad una argomento che ho da raccontare. Quel genere di cose che penso, e che talvolta racconto a qualche amico che è abbastanza sfortunato di trovarsi assieme a me alla sera quando olio un po' gli ingranaggi con un vino buono o un buon rum. Però sotto c'è anche una storia, che trapela mese per mese e si realizza al compiersi dell'anno. Sì, è una cosa un po' autobiografica. Tipo Blue Motel. Ma non si intitola Blue Motel, perché quello è il titolo del romanzo, non ancora scritto, che arriverà per ultimo, dopo che l'esperienza degli altri cinque lavori mi avrà affinato un po' il mestiere. Racconta di un bravissimo ragazzo, nato alla fine degli anni cinquanta e cresciuto in questo Paese con l'idea di andarsene, senza mai avere alla fine il coraggio di farlo. L'autobiografia di una persona non illustre. Ogni riferimento a persone o cose reali è puramente casuale.

Ho finito il primo libro. E adesso?